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Mesoraca, 14 ottobre 2021
Relazione tenuta da Vittorio E. Esposito nella sala consiliare del Comune di Mesoraca in occasione dell’apposizione di una targa ricordo accanto al portone di ingresso dell’antico palazzo De Grazia
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1. Ringrazio il Sindaco, gli assessori, gli amici borrelliani e dell’Upmed di Santa Severina, I Dirigenti scolastici, i docenti, gli studenti, i cittadini di Mesoraca – e con particolare emozione saluto gli eredi del barone De Grazia- per aver reso possibile questa giornata, in cui, con la solennità di cui saremo capaci, vogliamo ricordare e tributare l’onore che merita ad un filosofo a tutt’oggi non compreso nel suo autentico valore, dimenticato o ignorato dai più nell’ambito del territorio crotonese e forse, da molti, anche nella stessa città che gli ha dato i natali.
2.
Vorremmo augurarci che questa giornata segni l’inizio di una consapevole riappropriazione di una figura di primo piano del pensiero calabrese, meridionale e italiano e del pensiero in generale, del pensiero senza aggettivi, che, attraverso una vita sobria, solitaria, nascosta, interamente ed esclusivamente dedicata alla ricerca di una verità dell’uomo e per l’uomo, ha saputo introdurre, occupandosi di quella che per lui era la ” questione fondamentale della filosofia” ‘, e cioè il problema dell’origine, del valore e dell’uso legittimo delle nostre idee, elementi di chiarezza che vanno ancora oggi attentamente considerati, almeno da chi non preferisce cedere alle suggestioni delle grandi filosofie speculative, delle filosofie alla moda, delle filosofie apocalittiche, che presumono di chiudere in una formula definitiva la storia e il destino dell’umanità.
3. Il profilo intellettuale di Vincenzo De Grazia (1785-1856) è strettamente legato a quello di Pasquale Galluppi (1770-1846), il filosofo di Tropea. Non si può parlare dell’uno senza far riferimento all’altro. Gli stessi furono i problemi da loro affrontati : primo fra tutti il problema della realtà o verità della nostra conoscenza, a cui Galluppi dedicò il Saggio filosofico sulla critica della conoscenza (in 6 voll.), uscito, nella sua prima edizione, nel 1819 e a cui De Grazia rispose, vent’anni dopo, con il suo Saggio sulla realtà della scienza umana (4 voll-+1). Due opere di importanza capitale per l’individuazione della sorgente e del fondamento della verità dei discorsi che gli esseri umani si scambiano intorno alle loro reciproche esperienze e credenze. Due opere che andrebbero rilette, studiate e meditate ancora oggi, in un periodo in cui si è perso ogni riferimento alla verità e all’onestà del pensare, del parlare e del comunicare e in cui ogni ‘invenzione’, ogni sciocchezza, ogni falsità e menzogna trovano pari accoglienza sulla scena pubblica e vengono proposte in modo indifferenziato ad un’opinione sempre più disorientata.
Insieme hanno dato inizio alla storiografia filosofica, cioè alla Storia della filosofia, intesa in senso moderno e specifico, come dovrebbe essere intesa: non come una galleria di personaggi di cui si racconta questo ha detto questo, questo ha detto quest’altro, l’uno ha contraddetto l’altro ed è stato sua volta contraddetto, in un modo assolutamente inconcludente, ma come discussione critica delle opinioni filosofiche più autorevoli su problemi determinati e circostanziati, con una proposta di soluzione che viene offerta alla riflessione e al giudizio del lettore o dello studente.. Galluppi ne fornì il primo esemplare modello con le sue Lettere filosofiche (1827). De Grazia ne seguì il metodo, introducendo nelle sue opere delle ”rassegne” sulle opinioni dei filosofi, ragionate e articolate, per ciascun aspetto dei problemi trattati.
Entrambi furono figure di spicco e di riferimento nel panorama culturale della Napoli del primo Ottocento. Napoli era allora- e lo sarà per tutto il secolo,- una vera capitale europea della cultura, dove circolavano e venivano dibattute le idee filosofiche degli inglesi, dei francesi dei tedeschi, dall’empirismo, alla scuola scozzese, dal sensismo di Condillac all’eclettismo di Cousin, dal criticismo di Kant ai suoi sviluppi idealistici, ad Hegel.
Galluppi fu il primo lettore e interprete critico di Kant, e lo fece conoscere al pubblico italiano. Non conosceva il tedesco, lo lesse in una versione francese, ma lo capì profondamente e lo ammirò rivolgendo ciononostante alla filosofia trascendentale rilievi di carattere decisivo, che solo di recente sono stati accolti dal mondo accademico ( Maurizio Ferraris, Goodbye Kant!,2004)- Eppure ancora oggi nei manuali scolastici Kant viene celebrato come l’autore di una svolta epocale nel campo della conoscenza, di una rivoluzione copernicana, mentre di Galluppi e di De Grazia e delle loro intelligenti e pertinenti argomentazioni critiche non c’è più forse alcuna menzione-
Anche de Grazia studiò e comprese Kant senza conoscere il tedesco (l’unico dei napoletani che, all’epoca, conoscesse il tedesco, essendo emigrato in Svizzera, e che lesse Kant nella sua lingua fu un altro notevole filosofo abruzzese, Pasquale Borrelli, che, tra l’altro, suggerì a De Grazia, il metodo genealogico nella ricostruzione dell’origine delle nostre idee). Fu un critico acuto del pensiero astratto di Kant e di Hegel (la cui filosofia definì “un romanzo filosofico”, rifiutando la dialettica come uno “strofinamento” continuo dell’essere con il non essere) e delle filosofie speculative, come quelle stesse di Rosmini e di Gioberti, per cui le idee cascano, in certo modo, dal cielo e non sono piuttosto la scoperta e il costrutto di un soggetto concreto che osserva e “ vede” i rapporti reali tra le cose. E rimproverò, infine, allo stesso Galluppi, critico di Kant, di aver subito la sua influenza e di aver inteso alcuni rapporti, come ad esempio quello di identità, come rapporti logici (cioè soggettivi) a priori rispetto al loro riconoscimento come strutture inerenti alle cose stesse.
4. Galluppi e De Grazia furono, dunque, “i due grandi calabresi”, che nella prima metà dell’Ottocento hanno fatto rivivere la tradizione della “scuola italica”, risalente a Pitagora e ai pitagorici, una tradizione che la Calabria ha tutto il diritto di rivendicare con orgoglio, basata non su speculazioni astratte, ma sulla “historìa”, sull’osservazione , sulla ricerca empirica, sulla “scoperta” dei rapporti tra le cose, da cui vengono poi tratte conseguenze di ordine generale cioè vengono tratte le nostre idee sul mondo, che intanto hanno un valore in quanto trovano puntuale riscontro nei fatti, nelle effettive manifestazioni e realizzazioni del divenire mondano. E’ questo carattere concreto che caratterizza e distingue il pensiero calabrese, rispetto al razionalismo astratto di altre tradizioni di pensiero, Telesio, ad es., lo rivendicava a suo merito dicendo che i filosofi prima di lui avevano investigato a fondo la natura, ma non in l ‘avevano realmente ‘osservata’ fornendone perciò, spesso, rappresentazioni fantasiose Perché conoscere è sostanzialmente “ vedere” e le conoscenze generali partono dall’osservazione e dalla scoperta dei fatti, viceversa sono soltanto ipotesi più o meno plausibili, quando non campate in aria. Così, in coerenza e in continuità con questa linea di pensiero Galluppi elaborò la sua “ filosofia dell’esperienza” e De Grazia, parallelamente, la sua “filosofia dell’osservazione” che rappresentava un passo avanti rispetto alla stessa elaborazione di Galluppi.
5. I destini personali di questi due grandi calabresi, uniti negli obiettivi della loro opera, sono stati però divergenti sul piano personale. Galluppi, infatti, raggiunse in vita notorietà e fama internazionale Dal 1831 alla morte tenne a Napoli la cattedra di logica e metafisica che era stata del Genovesi, fu nominato cavaliere del re da Ferdinando II ebbe la legion d’onore di Francia da Luigi Filippo ed oggi possiamo vedere il suo busto nella piazza di Tropea, dove esiste un attivo centro di studi galluppiani, diretto da Luciano Meligrana, e un complesso monumentale con biblioteca ed archivio dov’era la sua residenza di campagna. E’ degno di ricordo il modo in cui ottenne la cattedra
6. De Grazia, invece, se nella prima parte della sua vita, come ingegnere aveva goduto di stima e di grande credito, come filosofo fu molto meno fortunato- Avrebbe potuto per diffuso riconoscimento subentrare al Galluppi nella cattedra di filosofia teoretica, ma non volle, non si diede da fare, non era uno che cercasse favori, sperava che il suo lavoro, sarebbe stato prima o poi riconosciuto, almeno dai suoi corregionali. Visse appartato, un po’ a Mesoraca, un po’ a Catanzaro, un po’ a Napoli e di lui non abbiamo neanche un ritratto da esporre qui, nella sala comunale della sua città. Sappiamo, dal ricordo affettuoso di un suo amico, eletto come lui deputato al Parlamento napoletano nel 1848, Tancredi De Riso, marchese di Botricello, che era di corporatura gracile, di aspetto nobile, di tratti gentili e cortesi e piacevole nella conversazione. Visse celibe e lasciò un nipote erede dei suoi beni, mostrandosi generoso verso due suoi compagni e verso i domestici nelle disposizioni testamentarie.uno spirito solitario, immerso nelle sue meditazioni e così assorto che quando camminava per strada e incontrava qualche conoscente non lo vedeva finchè l’altro non lo scuoteva salutandolo con insistenza.. Non si sa nemmeno dove sia sepolto e nessuna lapide o iscrizione ne ha ricordato il nome.
7. Eppure fu un pensatore profondo, penetrante, acuto, coraggioso e ci ha lasciato pagine di una tale profondità e forza di pensiero che dovrebbero comparire in un’antologia del pensiero filosofico di tutti i tempi e inducono a chiedersi come mai, in tutto questo tempo trascorso, ci siamo lasciati sfuggire lezioni e insegnamenti di questo spessore e di questo valore. Come quelle pagine del Saggio in cui discute delle idee di spazio e di tempo e della loro derivazione dalle di idee di estensione e di successione e della loro irrealtà o realtà solo potenziale. Tra parentesi egli giunse a negare che lo spazio fosse occupato dall’etere: un’idea antica, che lo stesso Einstein ha mantenuto fino ad un certo periodo della sua vita e che De Grazia invece respinse in base all’argomento che una sostanza infinita è inconcepibile, è un assurdo. O come quelle in cui discute l’idea di infinito, mostrando come sia inconcepibile una totalità infinita e come l’universo debba avere avuto un inizio, perché è impensabile una serie infinita di eventi antecedenti che in tal caso darebbe luogo al mostro concettuale di un infinito “completo”
8. Il principio, il punto di partenza di ogni conoscenza è la stessa coscienza, l’io, il più profondo io, l’osservatore che è in noi o che noi siamo, come veduta pura di tutto ciò che accade, senza filtri, senza diaframmi: non la “tabula rasa”, di Aristotele e di Locke, ma un potere attivo, intelligente, una capacità di esplorare, osservare, confrontare due o più sensazioni e di cogliere i rapporti che le legano: rapporti di somiglianza, di differenza, di identità, di permanenza e modificazione ecc. uno sguardo vigile e aperto fisso e immobile sul divenire che si dispiega davanti a noi, un io che non invecchia viceversa non potrebbe neanche accorgersi che noi invecchiamo, che è sempre lo stesso da quando si è risvegliato all’età di due, tre anni fino a che non si assopirà per sempre.
9. A De Grazia non interessava come si generi questo miracolo della coscienza- Le neuroscienze oggi si occupano del rapporto tra il corpo il sistema nervoso, il cervello e la vita cosciente. Ma a lui interessava studiare le potenzialità dell’io e i loro prodotti. Così come a noi , per lo più, quando guidiamo una macchina o scriviamo al computer non interessa conoscere l’hardware, ma solo cosa possiamo fare con essi, quali sono le potenzialità e le funzioni di un automobile o di un computer. Una di queste funzioni, per quanto riguarda l’io, è la possibilità di ricevere sensazioni, un’altra è quella di conoscere le cose, cioè di percepirle, una terza è quella di desiderare e volere inviando segnali al nostro apparato motore.
Dalla percezione dei rapporti tra le cose nascono tutte le nostre idee, che si depositano in quell’archivio storico che è il “senso comune”, da cui noi le attingiamo per interpretare e spiegare il mondo, il nostro mondo. Ma spesso le usiamo. senza renderci conto della loro origine e le consideriamo reali in se stesse, impigliandoci in ragionamenti astratti e inconcludenti. Cosa sono i numeri, cos’è lo spazio, cos’è il tempo, cos’è l’infinito? Sono cose reali, esistenti, dimensioni oggettive del nostro mondo? Si e no. Sì purché non le assolutizziamo attribuendo loro una realtà indipendente. Cosa sarebbero i numeri, lo spazio, il tempo, l’infinito, se non ci fossero le cose, gli esseri esistenti. Le sostanze. Immaginiamoci per un momento un mondo senza persone e senza cose Cosa conteremmo in un mondo privo di cose e questo nulla avrebbe lunghezza, larghezza e profondità,cioè le dimensioni dello spazio? E il tempo ci sarebbe lo stesso se non ci fossero cose che si muovono e succedono le une alle altre? Noi invecchiamo perché il tempo passa o il tempo passa perché noi invecchiamo? E in ultimo, che realtà possiamo attribuire all’infinito, se non partiamo dal finito, da grandezze finite, che poi moltiplichiamo o suddividiamo senza assegnare un termine a queste operazioni mentali? Sono tutte idee che nascono dal nostro rapporto con cose, fatti, eventi di questo mondo e che possiamo certamente analizzare in astratto, come facciamo con i numeri o le figure geometriche, ma senza mai dimenticare la loro origine e senza lasciarsi tentare da un uso trascendente e metafisico di concetti che abbiamo tratto direttamente dalla configurazione del mondo che conosciamo o che andiamo di volta in volta scoprendo.
Ecco, le riflessioni di De Grazia sono un potente antidoto contro le filosofie metafisiche, le filosofie dell’Essere e del Nulla, che sono continuate anche nel Novecento, anche in questo scorcio del terzo Millennio. Pensiamo ad Heidegger, al nostro Emanuele Severino, alla riscoperta di Parmenide e alle filosofie neoparmenidee.-
Per questo, contro il vuoto di pensiero e le illusioni dell’ epoca postmoderna è forse proprio giunto il momento di trar fuori dall’oblio in cui è stato lasciato per lunghi, interminabili anni e acquisirlo come gloria perenne della sua città, del crotonese e della Calabria, un pensatore autentico, di razza, come fu Vincenzo De Grazia, che intendeva la filosofia come esercizio del pensiero critico, come‘rassegna’ e discussione puntuale delle opinioni dei filosofi più autorevoli e come analisi genetica (scomposizione, decostruzione) delle idee in nostro possesso, indicando la via maestra di un pensiero che per volare alto non ha bisogno di spingersi in atmosfere rarefatte e di nutrirsi di “invenzioni speculative”, dal momento che il mondo conosciuto e il senso comune gli offrono un ricco materiale per scoperte sempre nuove.
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