Viaggio nella città calabresi: San Giovanni in Fiore.

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“Capitale” dell’Altopiano silano e non solo per il numero degli abitanti, sul confine tra le provincie di Cosenza e Crotone è un luogo del cuore per gli appassionati di storia locale, particolarmente per il periodo medievale. La storia della città è legata a filo doppio con la figura di Gioacchino da Fiore, fra i maggiori teologi della Chiesa cattolica che vi fondò non solo la propria abbazia, ma anche quell’Ordine florense che sarebbe stato la prima riforma cistercense, nella cui comunità fu risssorbita nel 1570. In località “Jure Vetere” fuori dall’attuale centro cittadino, Gioacchino fondò la nuova Comunità monastica.

“Così come da Maria, il fiore di Nazareth – osserva Giuseppe Riccardo Succurro, presidente del Centro internazionale di studi gioacchiniti nel n°15 de “Il CalabrOne” – venne come frutto il Figlio, così il fiore della nuova Nazareth è destinato ad annunciare il frutto dello Spirito Santo”. Fu probabilmente questa la motivazione che spinse Gioacchino a scegliere un fiore (un giglio) come simbolo della nuova Comunità religiosa chiamata dei Florensi cui è collegato anche il nome della Città. Era il 21 ottobre del 1194 quando per la prima volta il nome di San Giovanni in Fiore appare in un documento utticiale: il diploma con cui Enrico VI designa Gioacchino “venerabilis abatis de Flore” concedendogli un ampio appezzamento di terreno.

A distanza di alcuni secoli nel 1530, invece, Carlo V riconosce ufficialmente la nascita della cittadina e la sua comunità civica. Nel 1545 il borgo contava 17 famiglie e nel 1847, secondo il Morelli, gli abitanti erano 12000. E prima di Gioacchino? Osserva l’archeologo Pasquale Lopetrone, seprr nella rivista citata, che “la cronologia storica induce a pensare che in Faradomus, il luogo dovre sorge l’abbazia florense vi fu dapprima un insediamento longobardo del 590, che poi passò in uso ai Bizantini tra l’886 ed il 1194, quindi ai Florensi e infine ai Sangiovannesi. Una recente indagine archeologica condotta su piani basamentali dell’ala est del complesso conventuale abbaziale ha permesso di rinvenire i resti di un grande edificio che si sviluppa sotto l’edificio e sotto i cumuli di terra posti ad esta e a sud dello stesso. Tuttavia – aggiunge l’archeologo – finora nessun elemento concreto di età longobarda o bizantina è stato riportato alla luce “.

Passeggiando nei vicoli del centro storico, Raffaele Serafino Caligiuri ritiene di aver riconosciuto tracce di arte e storia atzeca nei disegni scolpiti intorno ad un balcone di un palazzo nobiliare. Sarà davvero così? Intanto nelle figure lo Storico avrebbe riconosciuto afferma che “le figure furono scolpite dopo la metà del 1500 da uno scalpellino atzeco che volle ricordare i tre Montezuma incatenati dagli Spagnoli. Certamente questo scultore volle immortalare lontano dalla sua Patria ciò che era successo al suo imperatore ed alla sua famiglia”. Sempre a detta di Caligiuri lo scalpellino “si era convertito al Cristianesimo e, venuto in Italia, al seguito dei Gesuiti con Carlo V, si fermò a San Giovanni in Fiore che proprio in quel periodo veniva inurbato da Cittadini spagnoli aragonesi, che insieme a cittadini della Morea, di Patrasso e Corone avevano trovato rifugio nella Sila gioachimita”. Annesso alla Abbazia florense di cui ne utilizza alcuni locali il Museo demologico dell’economia, del lavoro e della storia sociale silana. Fra le numerose sezioni del Museo, assume particolare importanza il fondo fotografico di Mario Marra molte fotografie del quale sono esposte nelle sue sale.

Nella sua interezza, l’archivio fotografico di Marra è composto da 2500 lastre in gran parte 10×15. Gustare le stesse fotografie, probabilmente fra le prime ad essere realizzate nella Sila ed a San Giovanni in Fiore è possibile percorrere a ritroso la storia silana e sangiovannese; scoprendo momenti di vita quotidiana e sociale della stessa città ed anche del suo abito femminile tradizionale che, ancora oggi, è possibile vedere indossato da alcune anziane. “Un costume semplice – osserva Mariolina Bitonti – quello femminile come l’universo delle donne sangiovannesi, matriarcale nelle sue origini brettie. Due sono i colori predominanti, il bianco del lino tessuto in casa e il nero dei broccati. È chiamato gereralmente “u rituartu” dal copricapo di lino che copre la testa e dall’elaborata pettinatura. Sulla camicia ricamata e sotto il corpetto si indossa la “cammisola” in velluto, chiusa con piccoli bottoni, che può essere colorata, sempre però in colori opachi”.
Francesco Rizza

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