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Sant’ Agata dell’ Esaro sorge su una rupe, a picco sul fiume Esaro, a 461 metri s.l.m., a 78 km da Cosenza, a 22 km. dal mar Tirreno, tutta circondata da catene montuose dell’Appennino calabrese, che si estendono a forma di diadema, solcate da torrenti, affluenti dell’Esaro. Fra i figli più illustri di questa cittadina calabrese, almeno per quanto riguarda il Novecento, non si può che ricordare quello di Dante Castellucci, chiamato “Facio”, che fu uno fra i più famosi partigiani calabresi.
Nato nel 1920 nella Cittadina della provincia di Cosenza, prima della propria esperienza nella Resistenza aveva vissuto quasi sempre in Francia, dove il padre fu costretto a fuggire dopo avere schiaffeggiato un notabile del paese. In Francia, Dante aveva studiato e anche lavorato. Giovane eclettico con interessi artistici Dante Castellucci suonava il violino, scriveva poesie, disegnava. Quando nel 1939 il padre perse il lavoro, insieme al resto della famiglia fece ritorno in Calabria dove fu raggiunto dalla chiamata alle armi, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia. Nel 1941 farà farà parte dei 250.000 soldati inviati in Russia con l’Armir. Sul finire del 1942 rimane ferito durante la “seconda battaglia difensiva del Don” e, trasportato in Italia, è ricoverato in vari ospedali per mesi. Durante la convalescenza, raggiunge Otello Sarzi e la sua famiglia a Campogalliano, vicino a Modena.
Dopo l’8 settembre del 1943, Dante Casterllucci decise di schierarsi dalla parte della democrazia e con la resistenza e, dopo essere diventato amico della famiglia Cervi, avendo preso il nome di “Facio”, prese parte all’organizzazione della fuga dei soldati stranieri, prigionieri nei campi di concentramento. Ed è qui, nella casa dei “Campi Rossi”, che insieme ai fratelli Cervi viene catturato dai fascisti e dai tedeschi. Fingendosi soldato francese viene rinchiuso in un carcere diverso da quello dei partigiani. I sette eroici fratelli Cervi vengono fucilati. Facio, invece, riuscì a fuggire e a raggiungere i monti del parmense e le prime bande della resistenza armata, dove si distingue in ripetute azioni di guerriglia.
È il 18 marzo 1944, sono in corso rastrellamenti nazifascisti e nove partigiani guidati da Facio, giungono nel rifugio “Mariotti”, una palazzina dalle grosse mura con inferriate alle finestre. In riva al lago dovrebbe convergere in quelle ore il resto del distaccamento “Guido Picelli”. All’imbrunire il gruppo è circondato da un centinaio di tedeschi e fascisti ben armati, al contrario dei ribelli dotati di armi leggere per rapidi colpi di mano. I nove uomini decidono di battersi. Il rifugio diventa una trincea. Il combattimento dura dal pomeriggio fino a notte e poi riprende all’alba sino a quasi sera; i partigiani sono esausti, alcuni feriti, quando gli assedianti abbandonano il campo lasciando 16 morti e 36 feriti. A causa anche del suo comportamento insofferente alla disciplina, unitamente a invidie, risentimenti, contrasti, provocano quel tragico processo nel quale Facio viene accusato di avere sottratto con il suo gruppo un “lancio” destinato ad altri e la piastra di una mitragliatrice. Per quello che, a detta di molti, sembrò un vero e proprio tradimento, Facio rimase incredulo, umiliato e deluso fino a rinunciare a difendersi e anche a fuggire, come i suoi uomini gli chiedono. È fucilato all’alba del 22 luglio 1944.
La biografia di Dante Castellucci entra comunque a pieno titolo in una pagina ancora poco approfondita della storia contemporanea italiana, quella relativa al contributo dell’Italia meridionale alla Residenza al nazi fascismo ed alla guerra di liberazione. Osservava lo storico e giornalista campano Mario Avagliano che “di tutto quanto avvenne nel 1943 sotto la linea di Montecasino, si ricordano soltanto le quattro eroiche giornate di Napoli della fine di settembre. Eppure nel breve periodo dell’occupazione tedesca, in Campania, in Puglia, in Lucania e nell’Abbruzzo si verificarono numerosi episodi spontanei di resistenza militare e civile ai Tedeschi. Pochi sanno della battaglia di Barletta o delle insurrezioni di Matera, di Scafati, di Teramo e di Lanciano, che videro la partecipazione di larghi strati della popolazione. Solo di recente alcuni studiosi (Gloria Chianese, Aldo De Jaco) stanno tentando di colmare questo vuoto storiografico, mettendo in discussione la vulgata ufficiale che contrappone “il vento del Nord” all’immobilismo del Sud”.
Più recentemente, osserva Romano Pitaro nel saggio “Il contributo del Sud alla lotta di Liberazione in Piemonte 1943-1945” si apprende che furono 7000 i Partigiani meridionali e fra questi almeno 1000 erano calabresi che ” la partecipazione e il ruolo avuto da migliaia di giovani meridionali non è stato un contributo aggiuntivo, ma costitutivo della lotta di liberazione che costringe a ripensare l’insieme del movimento e il suo significato generale, nazionale”.
“La Resistenza – aggiunge da parte sua l’ex vicepresidente del Consiglio piemontese Roberto Placido curatore del citato saggio – è stata sempre vista come fenomeno circoscritto al Centro-Nord del Paese. Le generazioni di origine meridionale che negli anni, in Piemonte e nelle altre regioni, hanno partecipato alle manifestazioni celebrative sono sempre state mosse da motivazioni politico-ideologiche più che da un sentimento dovuto alla partecipazione attiva alla lotta di Liberazione”. Saprà il Mezzogiorno italiano impossessarsi di questa pagina della propria storia?
Francesco Rizza
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