Unità d’Italia o annessione savoiarda? Riflessioni e spigolature.

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Era il 17 marzo 1861 quando il Parlamento italiano, inaugurato il precedente 16 febbraio, proclamava l’avvenuta Unità d’Italia approvando il disegno di legge firmato da  Cavour e da Vittorio Emanuele II “Re d’Italia per grazia di Dio e volontà della Nazione”.In vero, per essere veramente completata, l’Unità d’Italia ebbe bisogno di altri lustri, attraverso la Terza Guerra d’Indipendenza che nel 1866 rese italiano il Veneto, la presa di Roma del 20 settembre 1870 e l’annessione di Trento e Trieste con cui il 3 novembre 1918 terminò per l’Italia la Prima Guerra Mondiale.

Bastarono queste date ed il copioso sangue sparso per il loro raggiungimento per fare oltre all’Unità d’Italia anche una Nazione unita?  Contrariamente a quanto potrebbe sembrare, la domanda non è affatto retorica. E’, infatti, dalla protostoria che, a causa della propria posizione baricentrica nel Mediterraneo, l’Italia ospita oltre alle Genti autoctone un crogiolo di Etnie diverse, dai Celti ai Veneti, dagli Etruschi ai Sanniti, dagli Enotri ai Greci ed ai Bretti dei profumati quando inespugnabili boschi della Sila, solo per citare i più noti.

 Storicamente, una prima unità del territorio italiano è attestato  sotto il Dominio romano, ma a ben vedere già per quel periodo si può parlare di un’unità semplicemente politica ed amministrativa con differenze che si mantennero vive, almeno dal punto di vista linguistico, fra le varie zone peninsulari. In seguito, dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente all’Italia unita, il territorio nazionale subì la sommatoria di contaminazioni e dominazioni oltre all’esistenza di Ducati, di Principati e di Signorie che frantumarono l’amministrazione un po’ ovunque ad eccezione del Sud d’Italia che, dalla nascita del Dominio normanno all’Unità d’Italia, mantenne una certa unità – ancora una volta prevalentemente politica ed amministrativa – da Palermo a Napoli, da Trapani ai confini meridionali dello Stato pontificio. Quali furono le conseguenze di queste secolari divisioni?  

“La Penisola italiana – osserva l’antropologo Carlo Tullio Altan in “Ethos e Civiltà – identità etniche e valori democratici” edito dalla Feltrinelli 1995 –  non ebbe una storia uniforme, ma una molteplicità di storie, fin dalle più lontane origini. E mancò quindi di quella relativa omogeneità che ebbero le zone d’Europa abitate originariamente dalle Tribù germaniche, assai affini fra di loro sul piano etnico culturale. In nessun modo, per l’Italia si può parlare come per il Volk germanico, di una comune tradizione antica, di tipo tribale passibile di un recupero ideologico nelle nuove circostanze”.  

 Partendo da questo postulato e volendo definire con una metafora musicale la coscienza nazionale italiana, lo stesso Antropologo utilizza l’immagine di una “polifonia dissonante” che è incredibilmente vera anche per la varietà linguistiche presenti fra i vari dialetti italiani descritti per una delle prime volte da Dante Alighieri, padre della lingua italiana, nel “De Vulgari Eloquentia”. Per una certa conformazione linguistica italiana, infatti, più che l’Unità d’Italia si dovette aspettare la diffusione della televisione. Nella “polifonia dissonante” nazionale assume un particolare rilievo, almeno dal nostro punto di vista, la “polifonia dissonante” calabrese.

 Ad oltre 150 anni dall’Italia unita, come Calabresi, cosa siamo anche solo dal punto di vista antropologico e linguistico, noi Calabresi?  Quante furono le Etnie con le quali ci siamo confrontati nei secoli? Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi e Borboni solo per citare i maggiori dominatori. Ed ancora, fra le presenze storicamente più note quelle dei Greci, degli Ebrei, degli Arabi ed ancora oggi l’Isoglossa grecanica nell’ estremo lembo aspromontano, i Provenzali di Guardia Piemontese (Cs), gli Albanesi dello Jonio centro settentrionale e del suo Entroterra.

 Tracce di queste presenze, alle volte, appaiono dove meno ci si aspetta di trovarle. Nel dialetto calabrese, “spagnarsi” e “scialarsi” non sono due semplici infiniti riflessivi agli antipodi. Il primo sembra evocativo di quella paura che nella popolazione locale fu provocata dai dominatori spagnoli, mentre nello “scialarsi”, ci piace riconoscere la radice ebraica di shalom che nel suo concetto originario racchiude un significato ben più ampio della semplice pace, caratterizzando uno stato d’animo di tranquillità e benessere in parte riconoscibile nella “scialezza” calabrese. A differenziare al loro interno i caratteri calabresi, anche l’orografia dell’Appennino calabrese che, in maniera quasi prepotente, lascia poco spazio alla pianura.

 “Il Calabrese – per l’antropologo Raffaele Sirri autore de “Dal Cerchio al Centro, Romanticismo in Calabria” pubblicato  nel 1990 a Cosenza dalla “Edizioni Periferia”. – tende a riconoscersi in alcuni fatti e ne esclude altri, mai però pacificamente.  La stessa geografia della sua terra non è accettata pacificamente, non è un fatto in cui tutti si ritrovano. L’opposizione della Calabria dei boschi e la Calabria delle marine non è solo opposizione climatica, disagio di comunicazioni. E’ opposizione viscerale e psicologica, retaggio di storie sepolte ma non rimosse, oscuramente presenti nella matrice della stessa esistenza. Bruttio e Magna Grecia: entità a confini indefinibili”.

Come veniva vista anni in Calabria l’ Unità d’Italia negli anni in cui si stava compiendo? Grosso modo, pur se ci furono delle eccezioni, sul Risorgimento si registrò una sorta di dicotomia sociale. Mentre, infatti, almeno da un certo momento in poi la borghesia iniziò a guardare con interesse all’Unità d’Italia speranzosa di accrescere il proprio potere, la gran parte delle masse popolari guardarono a lungo con indifferenza agli avvenimenti che stavano cambiando la storia italiana. Gli animi e le speranze si accesero veramente solo con l’avvento di Giuseppe Garibaldi; poiché si accese la speranza che “l’Eroe dei due mondi” avrebbe portato, con la fine del dominio borbonico, anche quella del latifondismo che già allora era una delle maggiori cause della povertà dei ceti deboli.

 Ma per la fine del latifondismo, più che Giuseppe Garibaldi, ci vollero “i Fatti di Melissa” del 29 ottobre 1949 che precedettero la lungamente attesa e non più rinviabile Riforma agraria. Proprio a causa del latifondismo, ancora durante il Fascismo, era difficoltosa la vita dei braccianti agricoli nel Meridione italiana. Il loro stato d’animo è quello di uno dei loro più famosi rappresentanti in letteratura: Michele Zompa, uno dei personaggi di“Fontamara”.

“In capo a tutto – spiega il contadino abbruzzese – c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del Principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi, vengono i Cafoni. E si può dire che è finito”.

In questo scenario, le occupazioni delle terre erano, per la storica Amelia Paparazzo, “una tradizionale forma di protesta attuata nella Regione. Era abitudine, infatti, della popolazione del versante cosentino e di quello jonico invadere periodicamente, soprattutto nei mesi primaverili, le terre dell’Altopiano silano per praticare determinate colture che avrebbero soddisfatto il fabbisogno familiare. Di queste periodiche forme di protesta e di rivendicazione si ha notizia nel 1700 e nel 1800 quando, particolarmente dopo l’unificazione nazionale centinaia di famiglie contadine si recarono nelle terre del latifondo chiedendone la distribuzione”.

In un primo momento, che fosse necessario distribuire le terre, sembrò convinto anche lo stesso Garibaldi. Tra l’altro, sono prova di ciò i noti “Decreti di Rogliano” con i quali, nominando Governatore della Calabria Citra Donato Morelli, lo stesso Garibaldi ordinò che “gli abitanti poveri di Cosenza e Casali esercitino gratuitamente gli usi di pascolo e semina delle terre demaniali della Sila. Ciò provvisoriamente fino a definitiva disposizione”.

Partito, però, Garibaldi; bastarono pochi mesi al governatore Morelli per svuotare gli stessi decreti che, a distanza di poco più di un anno erano, stati privati del proprio valore iniziale con tutta una serie di limitazioni.  “L’impostazione della questione agraria – scriverà Antonio Gramsci – portava alla quasi impossibilità di risolvere la questione del clericalismo e dell’ atteggiamento antiunitario del Papa. Sotto quest’aspetto, i Moderati furono molto più arditi del Partito d’Azione: è vero che essi non distribuirono i beni ecclesiastici fra i contadini, ma se ne servirono per creare un nuovo ceto di grandi e di medi proprietari legati alla nuova situazione”.

Proprio la mancata soluzione della situazione agraria fu una delle concause  di quel Brigantaggio sul quale, considerato che non si trattò semplicemente di  una  piaga sociale dell’Italia meridionale nostalgica dei Borboni come vorrebbe descriverla buona parte della storiografia ufficiale, ancora oggi, è importante interrogarsi scientificamente.

Oltre all’arrivo dei fratelli Bandiera del giugno 1844 e la spedizione dei Mille, in Calabria si rivolsero alcune rivolte rimaste, almeno per il momento, poco note. Quella più importante fu la rivolta che scoppiò a Reggio Calabria il 2 settembre 1847, ma altri moti si registrarono   nel 1848  anche a Cosenza, a Catanzaro,  a Sant’Eufemia d’Aspromonte, a Filadelfia ed a Pizzo Calabro. Nativo della stessa cittadina tirrenica fu Benedetto Musolino, fra i fondatori dei “Figlioli della Giovane Italia” arrestato nel 1837 con l’accusa d’aver organizzato un’insurrezione.

Trasferitosi a Corfù, Musolino ritornò più volte in Italia, partecipando alle  lotte per la Repubblica romana prima d’indossare la giubba rossa dei Garibaldini e di diventare Parlamentare del neo nato Stato nazionale   nelle file della Sinistra. Fra i letterati calabresi che s’impegnarono per l’unificazione italiana occorre ricordare, fra gli altri, il poeta Domenico Mauro di San Demetrio Corone  e l’acrese Vincenzo Padula, fra i maggiori letterati calabresi del XIX secolo che pagò con i sacrifici di una vita il proprio impegno per la redenzione calabrese e l’Italia unita.  Proprio nelle descrizioni giornalistiche di Vincenzo Padula, è possibile osservare come, almeno per le classi meno agiate del Meridione italiano, cambiò ben poco con l’ Italia unita. Emblematica, per esempio la situazione dei carcerati.  

 “Tra le liete grida del Popolo nel dì onomastico del Re –  osservava  Padula –  udimmo una voce che lo malediceva; nella festa di Garibaldi ci parve vedere una lurida ombra entrare in teatro, imporre silenzio agli applausi e dire: “Maledetto Garibaldi!”. Nel santo giorno di Pasqua, mentre la devota Cosenza salutava Cristo risorto ne venne all’orecchio un lamento, che bestemmiava Cristo. Donde moveva quel grido; quella maledizione e quella bestemmia? Sotto a noi, che lieti di possedere una Patria libera, una Religione d’amore ed un Re galantuomo, ora mormoriamo una preghiera, ed ora intoniamo una preghiera, c’è dunque chi piange e maledice? Vi è dunque un inferno? Le prigioni di Cosenza bastano appena a 500 prigionieri e nondimeno al momento ne contengono 897. Manca a quegl’infelici l’aria da respirare, il luogo da muoversi, sono legati a mazzi, come i dannati dell’inferno, gli uni agli altri sovrapposti come fasci di fieno”. 

A nostro parere, c’è  chi nega in Italia che per il Regno di Napoli l’unificazione allo Stato unitario fu una vera e propria disgrazia anche dal punto di vista economico.  Oltre alla riserva aurea delle banche di Napoli che, unita l’Italia, fu assorbita dalle banche nazionali   ben superiore di quelle degli altri Stati italiani, di estrema importanza da questo punto di vista i dati dell’esposizione universale di Parigi del 1856 dove il Regno delle Due Sicilie risultò essere la terza potenza economica dell’Europa dopo l’ Inghilterra e la Francia, possedendo la quarta flotta commerciale mondiale. Sul versante culturale, oltre a quello che fin dall’antichità aveva rappresentato la Scuola medica di Salerno, nel Sud d’Italia al momento dell’Unità nazionale esistevano ben quattro Università: a Palermo, Messina, Napoli e Bari .

A queste occorre aggiungere  tutta una serie di “Studia” (equivalenti alle attuali Facoltà teologiche) annesse ai vari Ordini religiosi. Pur semplificando, inoltre, non si può fare a meno di ricordare quello che rappresentò nell’Europa del tempo la Corte palermitana dello “Stupor mundi” Federico II di Svevia. Proprio nella Corte palermitana nacque la “Scuola Poetica Siciliana”, madre della letteratura italiana in cui il notaio Giacomo da Leontini creò il metro del sonetto meritando una citazione nel “Purgatorio” della “Divina Commedia” dantesca. In ambito filosofico, nacquero nel Meridione italiano Gioacchino da Fiore (1130, 1202), Tommaso Campanella (1548, 1638), Bernardino Telesio (1509,1588), Giordano Bruno (1548,1638) solo per ricordare i nomi più noti. Come è possibile immaginare che intorno a queste figure che eccelsero nella storia del pensiero europeo esistesse, culturalmente parlando, il nulla delle statistiche post unitarie?

Per quanto riguarda l’altra accusa ancora oggi rivolta al Meridione italiano ed in parte vera relativa allo scarso senso dello Stato figlio di quel “familismo amorale”lungamente contestatoci, non si può fare a meno di ricordare l’attestazione storica di un grande della letteratura nazionale, Leon Battista Alberti (1404,1472).

 “Di natura l’amore, la pietà – scriveva  l’Umanista fiorentino nei propri “I Libri della Famiglia” — a me fu più cara la famiglia che cosa alcuna e per reggere la famiglia si cerca la roba, e per conservare la famiglia e la roba si vogliono amici, co’ quali ti consigli, i quali t’aiutano a sostenere e fuggire avverse fortune; e per avere con gli amici frutto della roba, della famiglia e dell’amicizia si conviene ottenere qualche oneranza e onesta autorità”.  Come dire: l’impegno politico? Solo se mi giova economicamente!

Cosa è restato della retorica dei recenti festeggiamenti per il 150° anniversario dell’unità d’Italia mentre alla “lega Nord” è bastato cambiare nome per sommare numerosi voti anche in Calabria dove è rappresentata nella Giunta della presidentessa Jole Santelli dal vice presidente Nino Sperlì? Evidentemente la necessità ancora oggi attuale di meglio studiare la storia dell’unificazione italiana come con le proprie pubblicazioni divulgative sta tentando di fare lo studioso Pino Aprile.

E se per la globalizzazione tutto il mondo è inevitabilmente diventato  un unico, piccolo, villaggio; se tante barriere politiche ma anche ideali sono ormai cadute a tutta questa storia ed ad ogni suo risvolto dobbiamo permettere di dirci qualcosa.  Nella consapevolezza che “davvero ogni storia è sempre contemporanea, per lo meno finché non possiamo liberarcene. Finora ci siamo liberati non più che della storia degli Ittiti; ma forse, a ben riflettere, neanche di quella” come osserva Luciano Canfora nel saggio “Noi e gli Antichi” edito dalla Rizzoli nel 2002

.Francesco Rizza

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