“Un biglietto di andata e ritorno” di Enzo Vigo. Seconda puntata “… quei valorosi ragazzi di strada… “

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15 APRILE Scansando macchine e schivando motorini che schizzano fuori da ogni angolo, mi avventuro nel labirintico ‘pianeta’ della villetta, tra adolescenti normalmente inquieti e adolescenti decisamente inquietanti. Qua e là fa capolino qualche ‘fuori quota’ (si fa per dire) che vaga un po’ smarrito nella speranzosa ricerca di altri ‘fuori quota’. Qui brulica l’universo vivente dei quindici ventenni che, in questo spazio strettoia, spremuto, compresso, esprime tutta la sua briosa vitalità, i loro naturali travagli; qui galleggiano i loro sogni, le loro speranze, la loro poetica ingenuità; vanno ‘dove li porta il cuore’; alcuni, forse troppi, vanno ‘fuori strada’ o “lungo strade che non portano mai a niente”. Aldilà e fuori da questa specie di mura di cinta umano, sembra ormai esserci il vuoto; non esiste altro luogo dove si manifesti qualsiasi vagito di vita aggregata che possa definirsi tale. La piazza, la ‘Polis’, sembra ormai aver perso il suo prestigio, la sua forza seducente; da tempo sembra che il pittore che l’ha dipinta si sia dimenticato di usare altri colori e i suoi pochi, abituali abitanti sembrano essere quelli dell’altra generazione, quella che ha forse vissuto gli anni migliori.

 Altro pianeta, quasi separato anche geograficamente, come luogo di ritrovo, quello dei più anziani, che in mancanza di panchine, si siedono sulla loro vita, raccontandosi il passato o passeggiando sul ponte dei loro anni. Quello che sembra drammaticamente palese è che pare esserci un drammatico vuoto in mezzo: quello dei trentenni-quarantenni; l’ossatura, la forza motrice di un paese, di una comunità, quella che dovrebbe essere o prepararsi ad essere classe dirigente, in senso lato. Questo è forse il vero problema, per certi aspetti il vero dramma non solo di una generazione, ma del Sud. Aldilà delle discussioni su chi debba o non debba fare il sindaco, l’assessore, il parlamentare, ci sarebbe da chiedersi: il Sud può avere un futuro più dignitoso? Una parvenza di maggiore vivibilità umana?

Certo, qualche ‘guerriero’ giovane e valoroso è rimasto, ma se togliamo qualcuno più fortunato, qualcun altro che “…. adesso mi butto in politica”, altri che si barcamenano alla meno peggio, restano quelli che consumano il proprio tempo vissuto in ore e giorni senza sapore, uguali, immutabili, ‘indaffarati a far niente’ e per loro il Sud non sta diventando altro che attesa infinita, come una ‘stazione’ che hanno chiuso da tempo, dove forse il loro treno non passerà più e non solo metaforicamente, mentre da qualche parte nel loro cuore custodiscono una debole fiammella di speranza che il vento impetuoso della noia sta lentamente spegnendo. Eravamo ‘La…leva calcistica della classe ’78…ovvero, ‘quelli che lo sport…’

Eravamo ‘ragazzi di strada’, ma anche ragazze, a quei tempi, nel senso più poetico del termine che a nostro modo abbiamo fatto la nostra ‘rivoluzione’ e, tutto sommato, credo, l’abbiamo anche vinta: quelli che hanno vissuto lo sport, il calcio in particolare, come una spruzzata d’aria fresca in faccia, quel brivido in più che spesso manca alla vita, perché finché il pallone rimbalzava la vita non ci sbadigliava mai. Noi non abbiamo imparato a giocare a calcio, ma a vivere il calcio, consapevoli (inconsapevoli e quasi incoscienti allora) che il pallone con un solo ragazzo si annoiava. Finché qualcuno che in quei terribili anni intuì e lesse quello che in quegli succedeva in Italia e nel mondo, e tutto senza guardare o fare caso ad alcuna scadenza elettorale in corso, non ci ha, meravigliosamente come in un sogno, scaraventati in quel campo sportivo che allora, ai nostri ancora ‘incantati’ e piccoli occhi, sembrava una grande e sconfinata distesa, che molto, troppo grande ci appariva. E poi c’erano le ragazze, inimmaginabile per quei tempi, un universo femminile che con la pallavolo, la loro femminile vitalità riuscirono, meravigliosamente, a tuffarsi in quel clima d’aria fresca.

26  APRILE “Non è vero che le stazioni sono fredde”, mi diceva sempre un mio amico. “Non ci trovi mai della gente indifferente: o si abbracciano con felicità o si abbracciano con la tristezza nel cuore”. Così dice questo mio amico e forse ha ragione, penso mentre timbro un biglietto di sola andato per Milano. Attaccato al finestrino del treno vedo il mare davanti a me e penso alle contraddizioni che rendono il Sud una terra così strana ed indecifrabile: agli occhi di un occasionale visitatore si presenta un paesaggio soffocante fatto di ammasso di cemento che chiamiamo case, che umilia quel mare e la splendida montagna, quasi, in sovraimpressione, che invece sembrano sorriderci e che hanno la capacità, a guardarli, di addolcirti l’animo. Non so’ domani quali cieli guarderò, di certo so che non saranno limpidi, puliti, pienamente e perennemente stellati come quello che sto guardando ora.

30 APRILE Sara ha 24 anni ma, mentre parla, ho come l’impressione di leggere nei suoi occhi un malessere che per le donne del sud è stato per anni molto antico e mentre la guardo mi accorgo che devo confessare a me stesso che tutto sommato di fronte a noi uomini le donne hanno reagito con molta più dignità. In fondo noi maschietti cosa avevamo da lamentarci? Uscivamo di casa quando e con chi ne avevamo voglia, non abbiamo mai dovuto inventare nulla ai nostri genitori: uscire, incontrarsi con altre persone, rispondere solo a se stessi era un fatto normale, codificato nell’immaginario e nella morale collettiva. Loro no e sembrava proprio quel loro continuo ‘dover rendere conto’ che quasi non le rendeva persone; quasi ci fosse un grande occhio collettivo che le soffocava e le stritolava in una morsa, fin quasi a togliere loro il respiro. Si potrebbero scrivere dei libri interi sui riti, i rituali a cui le ragazze del Sud hanno sempre dovuto far ricorso per fabbricarsi’ frammenti di libertà quotidiana: dall’uscire con le amiche all’incontrarsi con un ragazzo e poi vai a capire se uscire con le amiche era sempre un gesto di libertà perché un uomo, volendo, poteva anche uscire da solo, farsi un giretto, poi ritornare a casa, anche questa era libertà: decidere di non incontrare nessuno. Allora si, penso che forse è vero che le donne hanno avuto più dignità degli uomini; il più delle volte hanno subìto, sofferto in silenzio o hanno affidato al silenzio delle lacrime il compito di far parlare la loro anima. In questo è consistita la loro forza, ma forse anche il perpetuarsi della loro condizione.

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