Roccella Ionica: Michele Affidato realizza la nuova corona per la B.V.M. Addolorata.

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3 MAGGIO – Scruto questa grande stazione ferroviaria. Un formicolio di persone che se guardate dall’alto sembrano tutte uguali. Le storie che galleggiano quotidianamente in questa stazione, penso, sono forse una metafora di Milano. Signori vestiti da intercity con il “Sole 24 Ore” sotto il braccio, poveracci che tendono il braccio; ognuno di quelli che stazionano qui sembra messo apposta perché parte di un affresco umano; gente che cambia continuamente binario, gente che aspetta il treno della sua vita, gente che lo ha irrimediabilmente perso, gente che non ha mai tempo e gente che di tempo ne ha fin troppo ma non ne è più padrona. Milano che fa paura, Milano, dove ci metti piede e riscappi di nuovo, Milano generosa che sfama le bocche, Milano spietata e crudele che ti mette in un angolo, Milano dalle mille voci e dai mille dialetti. Ne avevo tanto sentito parlare che quasi mi pareva di restare contagiato dalle opinioni altrui e così mi lasciai quasi scivolare ed inghiottire dal suo frastuono di luci, ombre e rumori, lasciando che pensieri, emozioni, sensazioni, stati d’animo mi invadessero, senza quasi opporre loro alcuna resistenza.
Cammino a piedi, lentamente e senza meta, come amo sempre fare, ma avverto subito che l’accelerazione, la velocità che mi ruota intorno mi sottrae qualcosa, qualcosa che mi appartiene da tempo, forse da sempre. Non assaporo alcuna emozione, il mio pensiero non si posa e non sogna, mi sfugge la poesia dei dettagli. Ecco! qualcosa è come se si sottraesse al mio controllo emotivo e mentale ed io che cerco di raggiungerlo, di riagguantarlo, perché se io vado lento e tutto il resto va veloce, non vale; cerco di riacquistare i battiti normali delle mie sensazioni, lo scorrere consueto dei miei pensieri, ma ci riesco a fatica. Non sono abituato ad ‘andare veloce’ a ‘sentire veloce’ a ‘pensare veloce’, è come se il mondo non si schiudesse in me in tutta la sua multiforme vitalità, quasi come se qualcuno, con tutto quel bombardamento vertiginoso di rumori, di suoni, di immagini, volesse infilarmi di forza i pensieri in testa: prevedere quale sarà il mio prossimo pensiero o la mia prossima emozione equivale ad una mancanza di libertà, ad una assenza di armonia tra me ed il mondo.
Camminare a piedi, lentamente e senza meta, significa fermarsi ad ogni angolo di se stessi. Eppure quanti pomeriggi ho trascorso al mio paese, sempre aspettando che qualcosa accadesse, quante ore inutili, senza sapore, uguali, immutabili, quanti gradini ho consumato nella noia, in quelle atmosfere quasi senza tempo, dove ogni attimo era uguale all’altro, aspettando come si aspetta in una stazione che sembrano aver chiuso da tempo, quanto ozio non goduto, e quanto tempo non vissuto. Eppure qui, in mezzo a tutta questa velocità sembra mancarmi proprio quello che mi stava quasi diventando insopportabile.
Devo confessare, però, che forse senza quell’indole ‘invasiva’ della mia gente non saprei vivere; quel sapersi sempre sotto gli occhi di qualcuno mi procura una specie di conforto, di sicurezza, forse perché so che quel controllo altro non è, forse, che un modo spontaneo e non istituzionalizzato di essere solidali, di non far sentire sole le persone. Mentre al Nord ci sono le grandi organizzazioni di volontariato. Poi la convinzione che al sud forse, l’aspetto dell’invasione del privato e il rapporto umano sono sempre stati inscindibili, quasi due facce della stessa medaglia, l’essere violati o ‘invasi’ è un po’ il prezzo da pagare per non essere o sentirsi soli.
Devo ammettere però che giorni fa, mentre scorrazzavo un po’ a piedi, un po’ in motorino per le strade di Milano, a tratti provavo diletto e piacere a che nessuno mi fermasse, o mi parlasse; a Milano non ti senti addosso il grande occhio collettivo e questo un po’ mi faceva un senso di liberazione, di scioglimento. Forse anche quella del rispetto della riservatezza è una dimensione di cui avremmo bisogno, non sentirsi ‘invasi’ dall’altro, respirare un po’, anche se alla lunga una sensazione di ‘anonimato sociale’ sembra soffocarmi e camminando per le strade sembri quasi trasparente. Poi mentre la discussione con gli amici milanesi proseguiva sempre più animata mi resi conto, quasi emotivamente, di quanto fossero in realtà diversi i nostri mondi e ad un tratto ho sentito forte dentro di me come la presenza di un confine oltre il quale le mie emozioni, il mio universo simbolico, il modo di vivere, abitare e percepire il mondo, si fermavano di fronte al loro. Già pensare in dialetto e parlare in italiano, per giunta con l’accento milanese, mi faceva sentire ridicolo e goffo.
Restare aldiquà di questo confine significava alla lunga schiacciarsi in una situazione di solitudine interiore ed emotiva, quasi di annullamento di se stessi come portatore di una storia personale, andare al di là di quel confine significava insicurezza: come ti avrebbero accolto nel loro mondo? Un milanese e un calabrese respirano il mondo allo stesso modo? Allora avverti quasi come una sensazione di ‘non appartenenza’. Qualcuno mi diceva che oggi bisogna diventare cittadini del mondo, ed io non capisco, non capivo, Ma come? C’è per caso un modo universale di comportarsi, di esprimere emozioni e sensazioni? Oppure ognuno di noi è legato alla sua biografia ed al modo in cui fino a quel momento ha vissuto, respirato e ‘sospirato’ il mondo?
10 MAGGIO – Comunico a Giovanni la mia decisione di ritornare in Calabria, …sta per nascere una nuova vita… Non hai un volto, non hai una storia, so soltanto che ti vedo muovere su questo schermo che mi sembra una magia e allora mi sento stringere da una sensazione proprio quì, alla punta del cuore che poi pervade ed invade tutto il mio corpo, fino a toccare le radici più sottili e profonde delle mie emozioni. Poi, quasi di soppiatto, s’intrufola in me la robusta sensazione di averto dato il soffio della vita e, d’un tratto, mi sento, al contempo, creato e ‘creatore d’umanità. Sarai figlio mio e del mondo, calpesterai per la prima volta le stesse ‘orme’ di tutti venuti prima di te, ma ne farai di nuove che saranno tue e soltanto tue. Getto uno sguardo fuori dalla nicchia che per ora è il tuo mondo: se dovessi parlarti quando il mio cuore è intristito dalle miserie umane, ti direi cose non vere; se volessi parlarti quando il mio animo è sereno, ti direi che il mondo e la vita che ti attende, sarà come tu le vorrai vedere.
C’è un segreto, misterioso e inafferrabile, quasi cinico in quel ventre che ‘lievita’ e fa poi sbocciare la vita. All’essere umano non è concesso capire, comprendere, implorare spiegazioni; all’essere umano è permesso solo piegarsi, inchinarsi di fronte a ciò che non ha mai compreso e che mai potrà comprendere: il mistero della vita; non esiste parola, gesto, linguaggio che possa tradurre in qualcosa di comunicabile ciò che si prova in quell’eterno attimo, quando, guardando quei piccoli occhi sperduti, scopri dentro di te la dimensione dell’eternità e dal tuo animo sembrano sgorgare, inarrestabili come la lava di un vulcano, le mille intricate ed intrecciate emozioni che ti portano lontano, in un ‘mondo altro’, come se qualcosa, qualcuno, per un istante intramontabile, ti regalasse la sensazione di aver contribuito a rendere immortale l’umanità. Ogni altra parola che si potrebbe dire diventerebbe goffamente un balbettio confuso. Bisogna solo mettere a tacere le parole e far parlare, impetuosamente, il silenzio.
11 OTTOBRE – Con te no, questa volta le parole non le ho cercate: erano già scritte nei battiti del tuo cuore…no…non nel numero dei battiti, quelli sono più o meno uguali per tutti ma è che il cuore di una donna batte in modo diverso da quello di un uomo, in un modo che un uomo non può capire. Da quel poco (o nulla) che ho forse capito posso e vorrei dirti solo che nel mondo che ti attende, l’irriconoscenza, la cattiveria gratuita, l’invidia, la perfidia, la mancanza di umiltà, spesso le fanno da padrone: non posso negarti che soffrirai e, da donna, soffrirai di più e ti capiterà, a volte, di non sapere se urlare con il silenzio o con le parole ma la sofferenza dovrà portarti più in alto: volare sopra le miserie umane ma; sempre da quel poco o nulla che finora ho capito, vorrei dirti che il dare disinteressato, la disponibilità verso il tuo prossimo, la generosità, sono forse le uniche armi che hai a disposizione, anche se dovrai prepararti e vaccinarti all’ ingratitudine; queste sono le uniche armi’ che potranno servirti per sperare, lottare, vivere nonostante tutto.
…Anni dopo…… “Mamma mia….! Vi guardo …e vi vedo ancora bambini, non più quei piccoli per i quali i genitori erano tutto, la voce che tutto sapeva e tutto poteva: : è la tipica deformazione del genitore; non nascondo che non so’ più come trattarvi, non siete più bambini ma neanche adulti: siete ormai, come dicono le definizioni dei manuali, adolescenti; comincia ad affacciarsi in voi il pensiero del futuro, irrompe, impetuosa ed intricata di emozioni aggrovigliate, la ricerca della vostra identità, ossessionati dal fatto che questo riguardi voi, solamente voi e che nessuno potrà mai capirvi; cercate ed esigete la vostra indipendenza, più avanti, lo so’ dovete metaforicamente ‘uccidermi’, come padre e come genitore perché impetuosa, inarrestabile, sofferente ma affascinante, comincia la faticosa ricerca del vostro io più autentico, della vostra preziosa unicità che è e sarà per sempre il vostro più prezioso tesoro.
Dovrò sforzarmi di riguardarvi con occhi nuovi e diversi, per come voi vi sentite dentro: degli adulti. Anch’io mi sforzerò di viverla come un punto e a capo, come una rinascita. Mi permetto solo di dirvi, senza cadere nel paternalismo predicante, di amare tutto ciò che fate, di non fare le cose solo perché le fanno gli altri, mi permetto di consigliarvi, se potete, di viaggiare, conoscere posti e luoghi nuovi, storie e persone con culture diverse, guardare e vivere ogni cosa sempre con occhi nuovi, anche leggendo si può ‘viaggiare’; solo così un giorno potrete apprezzare ciò che di negativo ma anche di bello e di rigenerante hanno le vostre radici, la terra dove siete nati. Vorrei trasmettervi il piacere della bellezza, quella che accende le vostre emozioni e per questo non basta premere un tasto o cliccare, quella bellezza che non troverete mai fuori di voi, nei modelli di bellezza e appariscenza che oggi vi offrono internet e la televisione, ma quella che riuscirete a trovare dentro di voi. Alla vostra età, spesso, il mondo degli adulti potrà apparivi strano, incomprensibile, perfino assurdo, spesso purtroppo è così, ma ciò che è bene e ciò che è male lo dovete scoprire voi, quasi sempre sulla vostra pelle; e queste, purtroppo o per fortuna, non sono cose trasmissibili.
Quando avevo la vostra età farfugliavo e balbettavo sempre dentro di me “Quell’incosciente vivere come se non avessi bisogno di nessuno; poi il sentirmi solo ed insicuro ed avere bisogno di qualcuno vicino, anche solo stando in silenzio; il mio cuore e la mia anima che volano, per poi cadere a terra e rialzarsi di nuovo; quell’impressione di avere tutto il mondo nelle mie mani e poi sentirmelo scivolare tra le dita, per poi riacciuffarlo di nuovo; quell’insicurezza nascosta, la difficoltà di dare un nome e ad esprimere le mie emozioni, i miei stati d’animo, le mie paure, le mie gioie, i miei sentimenti; quel bisogno, a volte, di solitudine perché tanto: “nessuno mi capirà mai”, per poi ributtarmi nel gruppo, negli amici, nei compagni di classe, quasi una coperta che mi protegge dal freddo e dall’insicurezza e, col gruppo vivere, a volte (cercando di districarmi a capire qual è il bene e qual è il male, il giusto e l’ingiusto) quel brivido del proibito, dell’ imprevisto, della trasgressione che spesso mi fa sentire grande, un adulto.
Avvertire, a volte, la scuola come un vocìo, lontano da me, e poi di nuovo il gruppo, per condividere una gioia, un dolore ma, soprattutto, per cercare insieme a loro, la parte più bella e vera di me stesso, incamminandoci insieme in una ‘boscaglia’, con una miriade di intricati sentieri per trovare, finalmente, quello giusto, il mio”. Decisi che avrei ponderato bene se risalire o meno a Milano. Giovanni non disse niente, né mi asseconda, né mi contraria. Mi porge solo un foglio di carta con su scritto qualcosa. “Leggilo” mi dice ” è una cosa che ho scritto io qualche tempo fa, sono sicuro che ti farà piacere leggerla”.
Apro quel foglio soltanto in treno mentre guardo fuori dal finestrino. All’ inizio del foglio c’era un titolo: “Quel Treno” e poi così proseguiva: “Ogni volta gli stessi sentimenti, le stesse sensazioni che si accavallano, si rincorrono, formano nella tua mente e nella tua anima un groviglio di emozioni che tieni per te. Già, come se fosse facile parlarne, scriverne, come se fosse facile scavalcare se stessi e far finta che non sei tu quello che ogni volta parte e riparte, quello che prende il treno, che prepara la valigia mettendoci dentro la propria storia per sballottarla da una parte all’altra dell’Italia. Come se fosse facile affacciarsi al finestrino del treno e guardare per un’altra volta il mare che fa da sfondo a mani alzate che ti salutano, a visi che hanno accompagnato la tua infanzia, a luoghi dove hai cominciato a respirare ed a comprendere il mondo. E poi il treno parte e tu ti siedi e guardi fuori e ti accorgi che dentro di te qualcosa è stato infranto e tu non sei più lo stesso, sospeso tra passato e futuro, tra desiderio e realtà finché il fischio del treno non ti ruba il sogno per ridarti al presente, ad un presente confuso ed incerto e le tue radici cercano un nuovo rifugio che non hanno ancora trovato. Eppure ogni volta torno al mio paese con lo stesso entusiasmo, con la stessa valigia vuota, carica solo di voglia di ritrovare i luoghi della mia memoria, i segmenti nascosti della mia identità. Non è un viaggio attraverso l’Italia ma attraverso il tempo, torni lì e trovi quelle che ti sembrano solo ‘macerie’ e allora devi ‘spalare’, frugare per trovare ancora una volta il tuo presente, per ricostruire i fili della la tua storia.
Però, com’è bello il tuo paese il primo giorno che arrivi! Sembra sorriderti e ti si apre il cuore, ed allora in quei momenti ti i accorgi che lo ami profondamente, anche se non cambia mai niente, anche se lo sguardo delle persone è sempre più rassegnato e stanco, anche se sai che quei bambini che vedi giocare fuori sono senza futuro, ma giocano ugualmente. Eppure lo ami, lo ami lo stesso il tuo paese e pensi a quanto sia strano che per accorgertene devi starne lontano ed allora gioia e dolore cominciano ad avere un confine indefinito e incerto. Il tuo paese è sempre lì che ti guarda con gli occhi di sempre, sei tu che sei cambiato e non sai se scappare subito o restare quei pochi giorni. È una frattura che forse non riuscirai mai più a sanare. E quando devi ripartire ti chiedi sempre perché, perché non puoi sperare, soffrire, lottare e vivere in mezzo alla tua gente, nella tua terra. Le domande di sempre che mi frullano in testa mentre preparo di nuovo la mia valigia e la riempio di cose apparentemente insignificanti, per gli altri, ma che nascondono frammenti del mio vissuto, come se portarli dietro mi facesse avvertire di meno la nostalgia. Durante il viaggio in treno mi accompagnano immagini un po’ confuse di questi mesi di permanenza a Milano. Forse se dovessi scegliere, qualcosa che racchiudesse questa mia breve esperienza è proprio quel senso di futuro che si assaporavo a Milano.
In fondo vedere la gente muoversi, lavorare, non fermarsi mai mi dava adesso, a mente fredda, come la sensazione che il mondo girasse, si muovesse e tu ti muovessi con lui e poi mi viene in mente Arturo e la sua frase “per me stare senza fare niente è inconcepibile. “Già, quel senso di futuro che al meridione assaporiamo raramente perché tutto sembra avvolto e rinchiuso in un eterno, stagnante ed infinito presente. Milano con i suoi mille volti diversi che ti fanno capire quanti mondi possono esistere oltre al tuo. E penso allora anche a tutta quella gente del sud che in fondo deve ringraziare Milano; tutta quella gente che non conta più i giorni sul calendario; penso alle donne che a Milano non sono perseguitate dal grande occhio collettivo e possono vagare e vivere libere con i loro sentimenti e le loro emozioni; penso a chi tutto sommato non si è ‘prostituito’ alla cultura del nord e riesce armonicamente a conciliare e vivere le due dimensioni che porta dentro sé: la lentezza e la velocità; forse per queste persone il sud, la loro terra, è rimasta un territorio della loro anima dove hanno potuto piantare e far germogliare anche altre radici e far crescere cosi un rigoglioso giardino con fiori diversi.
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