“Un Biglietto d’andata e Ritorno” inedito di Enzo Vigo. (Prima Puntata)

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Scrittore per passione ed insegnante per mestiere ed un’autoironia disarmante, Enzo Vigo è ritornato da un paio di anni a Petilia dopo lustri di precariato fra Parma, Roma e la Puglia. Figlio dei suoi viaggi è “Un Biglietto d’andata e ritorno”, qualcosa di più di un diario. Iniziamo oggi a pubblicarlo a puntate. Buona lettura.

PROLOGO – “Io ci provo, non si sa mai, a volte… magari è rotto…” Azzardo a mettere fuori la testa dal mio portoncino… Ecco, lo sapevo!!!: semaforo giallo, lampeggiante, ovviamente… Inutile, mi paralizza, il semaforo giallo lampeggiante mi paralizza, mi precarizza, mi dà una sensazione di attesa senza senso. Corro? Magari riesco a passare prima che scatti il rosso… No… no… meglio aspettare, si  ma nel frattempo cosa faccio? Certo, certo… ammirare quella piccola e graziosa aiuola che sta li da chissà quanto tempo e che non avevo mai degnato d’uno sguardo. Intanto, però, il semaforo giallo lampeggiante prosegue il suo ripetitivo e meccanico corso: giallo, rosso, verde, verde, giallo, rosso e poi, di nuovo lui…il giallo lampeggiante…. e mica si ferma o sta li ad aspettare che io mi decida a smettere di filosofeggiare. “Ma cosa fa? Ancora lì che aspetta?” “Eh…? No, no, signor Giacomo, stavo guardando l’aiuola…sì, l’aiuola, è bellissima, non crede”?

21 MARZO  – Oggi è un giorno così, il tempo sembra gocciolare ed io mi sento come un peso qui, sulla punta del cuore, proprio come quando si viene abbandonati dalla persona che si ama. Tutto intorno mi sembra grigio, incolore e poi questa strana ed inesorabile sensazione di morte interiore non sembra intenzionata a regalarmi nessun margine di benessere, nonostante fuori, sui tetti ancora imbiancati di neve, si sta leggermente posando il primo alito della primavera. Me ne sto per ore accoccolato al fuoco che brucia uno dopo l’altro i miei pensieri. Ho quasi l’impressione, in questi momenti, che neanche le cose più poetiche mi sembrino degne di essere vissute, mentre tento inutilmente di evitarmi la domanda che negli ultimi tempi, quasi come una fastidiosissima mosca al naso, mi sta ronzando intorno: perché ho deciso di partire? Lasciamo stare, penso, ho deciso e basta e poi perché bisogna sempre dare una risposta a tutto? Spesso le cose più illogiche ed irrazionali sono quelle più necessarie e del resto una risposta pronta per gli altri e per me stesso me l’ero già confezionata: sono insoddisfatto del mio lavoro e per il momento non ho granché voglia di dare nè di darmi spiegazioni. Dal balcone semiaperto guardavo, quasi stregato: una bambina soffiava bolle di sapone, seguii il percorso di una di esse in particolare, la bolla seguiva strane traiettorie: a volte era lì…lì…che sembrava sfracellarsi per terra ma, un alito di vento, la sospingeva miracolosamente su…altre volte sfiorava lo spigolo di un muro…salva!!!…ancora una volta salva…Altre volte ancora, invece, sembrava quasi divertirsi a galleggiare per aria. La guardavo e mi sentivo come dentro di essa.

5 APRILE – Oggi mi sono seduto sui gradini che danno di fronte alla piazza; un po come curvare nei percorsi della memoria, con le fotografie delle stagioni della propria vita. Ricordo che da adolescenti, d’estate, ci si divertiva molto fino a notte tarda a parlare e a buttarsi addosso sacchetti pieni d’acqua e a raccontarsi fra coetanei le cose più strane o le balle più incredibili, oppure si stava lì a guardare le ragazze passare e ognuno diceva la sua, poi qualcuno finiva per innamorarsi e per un po’ non lo si vedeva più. Ad un tratto mi avvicina Luigi, un amico d’infanzia, mi sorprende mentre do ancora un’occhiata verso i politici del “qui-ci-vuole-un’alternativa” che discutono tra loro, emblematicamente piazzati nello stesso punto e nella stessa posizione dove li avevo lasciati il giorno prima.

Di politici dalle nostre parti ne abbiamo di svariate specie, i più simpatici, si fa per dire e apparentemente più innocui, sono appunto quelli con la faccia di burro: non ridono mai, non piangono mai e quando fanno i ragionamenti (mettiamola cosi), gesticolano con le mani sempre allo stesso modo …e anche se tu gli chiedi…che so’: “Ma sa che mi sono innamorato”? Loro rispondono, sempre: “Qui-ci-vuole-un’alternativa”…!!!” Privi di un qualsiasi sussulto che abbia lontanamente a che fare con un’emozione, o chiusi dentro un bar a ‘giocarsi’ a carte, con le spalle rivolte alla vita; tutto sommato sarebbero anche innocui se non fosse che, pare non s’accorgano, che tra i bambini che giocano nei vicoli e, inesorabilmente destinati ad abbandonare un giorno la propria terra, ci sono anche i loro figli.

Luigi oggi non mi è parso molto allegro anche se conserva sempre la sua voglia di scherzare usando, com’è solito fare, il linguaggio dei fumetti. Il suo sorriso però stavolta è sembrato arrivarmi quasi amaro e forzato. “Allora parti anche tu” mi ha detto, “Ormai qui in paese non resteranno che squaw e bambini, i nostri guerrieri più giovani e valorosi sono sparsi, chissà perché, per l’Italia e per il mondo a difendere altri paesi ed altre città”. Già! Chissà perché. Nel nostro parlare quotidiano, più o meno metaforico, quel ‘chissà perché’ ricorre sovente, ma stavolta ci ho posato l’attenzione più del solito.

A volte m’immagino che forse potrebbe  trattarsi del nostro consueto alibi: quello di trovare sempre qualcosa o qualcuno cui dare la colpa dei nostri mali: l’abbandono, il degrado morale e civile, i drammi umani della disoccupazione, e capire e spiegare come anche il più puro e nobile degli ideali possa frantumarsi sotto i colpi del bisogno; e poi quel lamentarsi continuo, quel vittimismo inconcludente e fatalista, quella rassegnazione atavica che quasi scolpisce nell’animo della gente la certezza dell’immutabilità delle cose, come se noi, popolo del sud, fossimo solo delle vittime innocenti e non anche dei colpevoli responsabili. 

Ma devo dire, in verità, che quel ‘chissà perché’ spesso mi rimanda ad altro: a volte tendo quasi a giustificare questo fatalismo, come se esso provenisse da un’antica amara e profonda convinzione: quella di essere stati veramente traditi, delusi, come se quell’atavica rassegnazione fosse, in realtà, la rabbiosa reazione dell’uomo (e ancor più della donna del sud perennemente inascoltati, immancabilmente disattesi da promesse mai mantenute, un po come se quel grottesco e spesso buffo e donchisciottesco muoversi quotidiano in un mondo popolato da ‘nemici’ lo facesse sentire sempre accerchiato, assediato, guardingo, attento a difendersi da chissà quali truffe, raggiri ed inganni di ogni genere e celasse l’abitudine, quasi interiorizzata, di chi è ormai avvezzo alla subalternità, abituato da sempre ad essere dominato e defraudato di tutto ciò che gli consentirebbe di essere persona. “Tu cosa ne pensi”? Chiesi distrattamente a Luigi convinto com’ero che lui avesse seguito tutto il filo dei miei pensieri. ” Cosa ne penso dei giovani guerrieri forti e valorosi?” mi chiese, “Chissà forse un giorno ritorneranno tutti a combattere qua “.

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