STORIE CHE NON PASSANO: 29 ottobre 1949 ed i “Fatti di Melissa”. Ancora oggi sfruttatori e sfruttati.

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“Era il tempo della semina delle fave e ci siamo incamminati verso le 5. Dell’arrivo della polizia nessuno sapeva niente. La raccomandazione che avevamo avuto dai dirigenti della Federterra era di accogliere i poliziotti, se fossero arrivati, con battimani e grida d’evviva. E così fu. Alla vista dei primi agenti ci radunammo al centro di Fragalà e battemmo le mani. Come risposta giunsero i primi candelotti lacrimogeni. Qualcuno di noi li rilanciò verso lo schieramento dei celerini, a quel punto scoppiò la tragedia. I poliziotti cominciarono a sparare con le pistole ed i mitra. Un vero e proprio inferno di piombo e di fuoco”.  

E’ Peppino Nigro, testimone oculare e fratello di una delle vittime dell’Eccidio di Melissa, il ventiquattrenne Francesco Nigro, a ricordare ciò che accadde quella mattina del 29 ottobre 1949: una data importante nelle lotte agrarie in Calabria e nell’intero Meridione italiano. A raccogliere la testimonianza di Peppino Nigro,  a trent’anni dall’accaduto,  Sergio Dragone, cronista de “Il Giornale della Calabria” che con un dettagliato reportage  ha ricostruito quei tragici momenti che decretarono la fine del latifondismo  alla vigilia di quella che sarebbe stata la “Riforma agraria” del 1950. Contemporaneamente ai “Fatti di Melissa”   altre  occupazioni di terre incolte s’erano registrate in altri 72 Comuni della provincia  di Catanzaro ed   in Sicilia, in Lucania, in Puglia e nel Lazio meridionale. 

  Dalla fine della seconda guerra mondiale, lo scontro politico relativamente alla questione agraria era, ormai, altissimo.  Per rendersene conto basta pensare alla strage di “Portella della Ginestra”  quando Salvatore Giuliano ed i  suoi  gregari spararono contro i braccianti siciliani radunati nelle campagne palermitane.   In quel primo maggio,   del 1947,   osserva lo storico Umberto Santino, migliaia di persone si erano ritrovate   nel pianoro   a metà strada tra i comuni di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, in provincia di Palermo e la violenza banditesca era stata itilizzata dallo Stato in una strategia politica volta a colpire le forze che si battevano contro un determinato sistema di potere. Restava tra le righe che le “carenze dello Stato” erano da attribuire all’azione della coalizione antifascista allora al governo del Paese.  

Le stesse  occupazioni delle terre,   secondo la docente dell’ Unical Amelia Paparazzo, avevano origini antiche e rappresentavano una delle poche proteste possibili nel Meridione italiano e, particolarmente, in Calabria.  “Erano una tradizionale forma di protesta attuata nella Regione. Era abitudine, infatti, delle popolazioni del versante cosentino e di quello jonico del Marchesato di Crotone invadere periodicamente, soprattutto nei mesi primaverili, le terre dell’ Altopiano per praticare determinate culture che avrebbero soddisfatto il fabbisogno familiare. Di queste periodiche forme di protesta e di rivendicazione, si ha notizia dal 1700 e nel 1800 quando, soprattutto dopo l’unificazione nazionale, centinaia di famiglie contadine si recarono nelle terre di latifondo chiedendone la distribuzione”.   

Dopo la fine della dittatura fascista, in Calabria e nel Meridione italiano  i tumulti contro il latifondismo erano ripresi fin dal 1946. A causare la rivolta, anche   la decisione del ministro all’Agricoltura on. Antonio Segni di ritirare i “Decreti Gullo”, approvati due anni prima che avevano provocato, per i contadini, una situazione positiva.  Con questi decreti, infatti,   si assicurava  la continuità del lavoro,  veniva ridotto lo sfruttamento dei possidenti terrieri e si promuoveva la nascita di alcune cooperative cui sarebbero state assegnate le terre incolte.

Questa Riforma era stata redatta da un illustre parlamentare calabrese  eletto nelle liste del Partito Comunista  e  più volte nominato ministro: l’avvocato catanzarese Fausto Gullo che, dopo essere stato partigiano e costituente, resse il ministero all’Agricoltura nel primo Governo d’unità nazionale retto da Badoglio e guidò   lo stesso dicastero  nei Governi Parri, Bonomi e De Gasperi.  Nel 1946, era stato, appunto, Alcide De Gasperi a nominare  Gullo Ministro di Grazia e Giustizia ed il ritiro dei “Decreti Gullo” era stato uno  dei primi atti del nuovo Ministro all’agricoltura, Antonio Segni, docente universitario e latifondista sardo.                Già  da allora, l’esasperazione dei contadini era cresciuta a dismisura anche perché,  per  bloccare alcune occupazioni,    dei latifondisti Latifondisti calabresi avevano ottenuto l’intervento della polizia.   “

Relativamente alla Calabria, quello di Melissa, purtroppo,  non fu l’unico momento di violenza. Se i cosiddetti “Fatti di Melissa” divennero celebri è perché fu proprio nella cittadina del Crotonese che si raggiunse il punto di non ritorno.  Focalizzando l’attenzione solo nella Calabria mediana, furono numerosi gli  avvenimenti in cui i contadini erano scesi in piazza per chiedere migliori pane e migliori condizioni di vita. 

Il 27 novembre dello stesso 1946, a Calabricata, sulla costa del medio Jonio calabrese, un campiere dell’agrario Pietro Mazza sparò sui contadini che avevano occupato alcune terre, uccidendo Giuditta Levato. Le cronache del tempo raccontano che, dal  17 settembre,  alcuni contadini avevano occupato alcuni terreni incolti. A guidarli una giovane e coraggiosa mamma incinta da alcuni mesi.

 Il 25 ottobre 1949 a Crotone 10.000 persone occuparono 6000 ettari, il 26, in analoghe situazioni, ci furono 40 arresti a Strongoli ed il 28 ad Isola Capo Rizzuto fu ucciso un anziano contadino, Matteo Aceto, fra i promotori del movimento d’occupazione. Questo, anche se per grosse linee, lo scenario in cui  i cosiddetti “Fatti di Melissa” rappresentarono, nell’immaginario collettivo,   una situazione ormai irrecuperabile. 

A  Melissa, l’arrivo dell’esercito inviato dal ministro Mario Scelba era stato preceduto dall’occupazione  del feudo di “Fragalà”: un ampio appezzamento allora incolto ed abbandonato da ben 14 anni che, durante il fascismo, era stato ampiamente sfruttato dai Polito e dai Berlingeri, ricche e nobili famiglie di Crotone.

Oltre a Francesco Nigro, a Fragalà,  rimasero a terra il quindicenne Giovanni Zito e la ventiquattrenne Angelina Mauro che, ricoverata all’Ospedale civile di Crotone, per le ferite riportate vi morì dopo alcuni giorni. Altri 15 contadini, invece, furono feriti in maniera più lieve.

A Sergio Dragone raccontava di Francesco Nigro, il padre Giovanni “aveva fatto la guerra ed era finito prigioniero prima in Germania e poi in Russia. Era tornato a Melissa per lavorare, ma qui trovò soltanto la fame. La miseria trionfava e fu questo a spingerci ad andare sulle terre, a coltivarle. Non è vero che le occupazioni sono state un fatto di partiti. Di mio figlio hanno detto che era del Msi. Non è vero, mio figlio era libero! Fu un movimento di popolo. C’erano tutti a Fragalà. I Comunisti, i Socialisti, i Democristiani e pure i Fascisti. Era la fame a spingere tutti. Anche nel 1922 si lottò per la terra e i carabinieri misero in piazza la mitragliatrice. Ma non si arrivò mai a quella ferocia”.      

Un altro testimone oculare che raccontò quella giornata al cronista Dragone fu il pastore Antonio Durante che, dopo la sparatoria, fu precettato dalle forze dell’ordine che vollero essere accompagnate a Cirò Marina attraverso stradelle di campagna.  “Fui picchiato – raccontava – dai carabinieri perché non volevo accompagnarli. Mi ci portavano con la forza. Mentre camminavamo, mi rivolgevano parole ingiuriose nei confronti dei Melitesi: siete tutti delinquenti e cafoni mi dicevano”.

In Puglia, lo scenario  del nuovo scontro fu la “Capitanata”,   porzione settentrionale  del Tavoliere. Era il 23 marzo del 1950 quando l’occupazione delle terre arrivò a San Severo, cittadina del Foggiano conosciuta come “la Varsavia di Puglia”. All’arrivo dei celerini, altri spari sui contadini e le cronache parlano di un morto, centinaia di feriti, 180 arresti. Al sangue versato, si aggiunse la “piccola epopea” dei bambini come scrisse la giornalista Antonella Gaeta. Una sessantina di bambini figli dei carcerati furono affidati ad alcuni comitati di solidarietà, nati intorno al Partito Comunista, che subito sorsero in Toscana,  in Emilia Romagna, nelle Marche.  “I sacerdoti – annota la cronista – diffusero la falsa notizia che li avrebbero portati in Russia e i piccoli destinati a Lugo di Romagna, a sentire quello strano dialetto ci credettero davvero. Formarono famiglie allargate, ancora adesso fratelli di due anni indimenticabili sono in contatto, si scrivono lettere e una volta all’anno si incontrano. Poi, nel 1952, il ritorno a casa, a riabituarsi a una quotidianità di fame e duro lavoro anche i più piccoli. Ma al fianco dei propri genitori, finalmente liberi”.

Poche le prese di posizione, da parte dei giornali nazionali  contro l’accaduto. Voci fuori del coro furono “L’Avanti” diretto a quei tempi da Sandro Pertini che parlò di “omicidio premeditato” e “L’Unità”  diretta da Pietro Ingrao che propose alla Federazione Nazionale della Stampa l’invio a Melissa di una delegazione di giornalisti di tutte le tendenze con lo scopo di fare luce sui fatti accaduti. Anche se tale proposta non ebbe seguito, la coscienza popolare si era ormai svegliata.

Sulla stessa “L’Unità” in una delle uscite immediatamente successive ai “Fatti di Melissa” tuonò la penna provocatoria del sacerdote don Primo Mazzolari che accusando i parlamentari cattolici di poco coraggio.  “Hanno paura  – scrive don Mazzolari – di ledere il diritto di proprietà, abbiano almeno il coraggio di colpire il lusso, l’inerzia e la stupidità criminale di chi fa una riserva di caccia laddove braccia senza lavoro e stomachi senza nutrimento hanno  il sacrosanto diritto di lavorare e di mangiare”. “Dio mi guardi – aggiungeva lo stesso sacerdote – dal pensare che codesti intoccabili siano da annoverare tra i grandi elettori o tra i benefattori del convento. Non fanno onore ad un governo d’ispirazione cristiana se poi la polizia ha caricato una folla di poveri braccianti che hanno sofferto la fame, fame di pane e voglia di lavorare. Non si può difendere – aggiunge don Mazzolari – una proprietà affamatrice , sparando su chi ha niente e domanda di lavorare, prima vivere e poi possedere; prima l’uomo e poi il proprietario. E se il proprietario si mette contro l’uomo, si tuteli l’uomo, non il proprietario indegne, non la sua disumana proprietà”.

Dopo l’eccidio, il latifondo di Fragalà fu diviso fra i contadini ed il 2 novembre 1949 rappresentò un’altra data storica poiché  furono ritirati gli sfratti a coloro che in Calabria avevano occupato 5200 ettari; mentre il 15 dello stesso mese di novembre il Consiglio dei Ministri approvò una propria proposta di riforma agraria, nella consapevolezza che ormai i tempi erano maturi ed altri rinvii non sarebbero stati più accettati dalla popolazione.

Preceduta da queste rivolte, la Riforma agraria non produsse i risultati che sarebbe stato lecito aspettarsi. Anche se, per rendersene conto veramente, la Calabria ed il Meridione italiano ebbero bisogno di più lustri.   Era il 21 ottobre del 1950 quando il Parlamento approvò la   legge stralcio  n°841,   parzialmente finanziata dai fondi del Piano Marshall”.    Vero è che il latifondismo fu completamente sventrato dalla stessa riforma,, ma i piccoli appezzamenti che lo sostituirono furono delle piccole “isole”  per l’incapacità della politica di guidare gli agricoltori verso quella cooperazione che in altre Regioni, come  l’Emilia Romagna, rappresentano  la forza portante dell’agricoltura. 

 Francesco Rizza

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