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di Giuseppe Marino*
La storia dei contadini e dei braccianti caccuresi è, come tutte le storie della povera gente, una storia di sacrifici, sofferenza, sfruttamento, povertà, una storia di uomini angariati dalla sorte e dai loro simili che li facevano ammazzare di fatica per un misero salario.
A quei tempi si lavorava da “stilla a stilla”, dall’alba al tramonto per una ricotta o due litri di olio o un pugno di grano. A soprintendere l lavoro di questa povera umanità vi era quasi sempre il soprastante del barone, il caporale, avrebbe detto il grande Totò, che cercava, con tutti i mezzi, di ottenere il massimo da quest’uomini macilenti e ossuti.
Uno di questi sorveglianti aveva escogitato una trovata perversa che triplica, quadruplicava o quintuplicava l’impegno la resa dei poveri braccianti. Quando i nostri genitori ci raccontavano questa storia pensavamo che quei tempi fossero finiti per sempre.
Chi poteva immaginare che distrutti i grandi partiti di sinistra, i sindacati, con la comparsa all’ orizzonte di ciarlatani e imbonitori da strapazzo operai, braccianti, contadini si sarebbero ritrovati alla mercé dei caporali. Ma vediamo cosa s’era inventato questo soprastante caccurese morto verso la fine degli anni 60 del secolo scorso.
Al mattino presto, dopo un’abbondante colazione, si faceva trovare nel luogo di raduno dei braccianti che, in fila indiana, si avviano ai campi. Si portava in coda alla fila, si accostava con fare furtivo ad uno di quei poveri cristi e gli allungava, facendo attenzione a non farsi scorgere dagli altri lavoratori, uno o due fichi secchi con le mandorle.
“Tieni, gli diceva, sei un bravo giovane tu! Meriti davvero questa attenzione, mangia che ti togli un po’ di fame. Ma ti raccomando, non dirlo ai tuoi compagni. E’ un’attenzione che mi sento di fare solo a te, non vorrei che tutti mi piombassero addosso chiedendomi fichi. Mica ne ho la dispensa piena io!”.
Poi, mentre il povero lavoratore ringraziava commosso, si staccava da lui e ripeteva la stessa operazione con tutti gli uomini della fila, sempre badando di non farsi vedere e non farsi sentire dagli altri. Poi si portava in testa al gruppo ed accelerava l’andatura per guadagnare qualche minuto di lavoro.
Giunti sul campo i braccianti impugnavano la zappa e cominciavano il loro duro lavoro. La zappa calava alacremente e le zolle venivano rivoltate in profondità ma, dopo qualche ora, la schiena era a pezzi e le braccia indolenzite.
Gli uomini, distrutti dalla fatica, raddrizzavano un po’ la schiena e si appoggiavano alla zappa per riprendere fiato. Allora, puntuale come le tasse, si udiva la voce del soprastante: “Ehi, quello del fico!” E cinquanta schiene si curvano sul terreno e cinquanta zappe riprendevano alacremente a rivoltare il terreno e cinquanta uomini si sentivano in colpa per non aver saputo ricambiare il favore al caporale.
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