Spigolando nella storia del Crotonese: Dalla nascita del Marchesato ai “Fatti di Melissa”.

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27 Comuni, compreso il capoluogo 174.641 abitanti al 31 maggio 2019 secondo il censimento dell’Istat ed un territorio fra il medio Jonio e l’ Altopiano silano con un Ente amministrativo istituito il 6 maggio 1992. La densità della popolazione non supera i 40 abitanti per kmq. nei limiti più ampî, i 30 in quelli più ristretti.  

 Due Comuni del Marchesato crotonese, Caccuri e Santa Severina, sono stati inseriti nell’ elenco nazionale dei “Borghi Più Belli”. Dal punto di vista religioso, lo stesso territorio è amministrato dall’ Arcidiocei di Crotone e Santa Severina, erede della Metropolia santaseverinese storicamente fra le più importanti dell’ Italia meridionale. Lo stesso territorio è, da sempre,  vocato all’agricoltura capace di produrre eccellenze specialmente nella coltura dell’ulivo, dei viti e dei cereali. Per per un lungo periodo, particolarmente il territorio comunale di Cutro con le zone circonvicine era conosciuto come uno dei “granai d’Italia”.                                                               

 Per quanto riguarda il suo territorio, lo storico Marchesato di Cotrone, antico nome della Città capoluogo,   coincideva a quello del già circondario amministrativo di Cotrone, in provincia di Catanzaro, racchiudente anche una parte della Sila Piccola.  Attualmente il toponimo  di Marchesato è assegnato ai corsi medio e inferiore del Neto e del Tacina,cui si aggiunge il territorio a nord del corso inferiore del Neto sino al torrente Lipuda.                                                                                      

Grosso modo, sono riconoscibili nel suo territorio  due diverse zone. La prima di queste, la più settentrionale,  è anche la  più ampia. E’ costituita da formazioni collinari di origine sedimentaria e pliocenica, cioè argille azzurrastre, marne argillose e sabbie calcaree, tutte solcate da una fitta rete di corsi d’acqua, localmente detti “Valloni”,  asciutti d’estate, che convergono nel Neto e sì gettano nello Ionio tra la foce del Neto e quella dell’Esaro, a nord di Crotone.                                                  

 L’altra zona, invece, comprende un Altopiano  tra i solchi della valle dell’Esaro e del Vallone Dragone, verso il golfo di Squillace si riattacca alla prima con la soglia di Cutro  sendendo con ampie e poco sensibili gradinate verso il mare, ove strapiomba da circa 20 m. con un orlo costiero in cui s’incurvano piccole insenature fra i capi Castello, Rizzuto, Cimiti e il promontorio Lacinio, detto anche “Capo Colonna”.                  

Per lunghi secoli, il Marchesato crotonese, come altre zone dell’ Italia Meridionale,  fu gravato da quel Latifondismo che, iniziato nell’ Evo Normanno sarebbe finito con la Riforma agraria solo con la Riforma agraria del 1950. In quello che sarebbe diventato il Marchesato Crotonese, come scrive Andrea Pesavento nel saggio “Metamorfosi in un territorio” edito nel portale web dello “Archivo Storico del Crotonese” la presenza delle signorie si rafforzò con “l’occupazione angioina aumentò il potere feudale nelle campagne e nel contado, il paesaggio agrario cominciò a mutare per il decadere dei casali e la riduzione delle superfici coltivate, dando spazio all’incolto. La marina d’estate deve essere abbandonata perché malarica, mentre si consolida un’economia che vede ogni tre anni sugli stessi terreni nascere i pascoli dalle terre a semina. Il riposo triennale e la concimazione che ricevono le terre dal bestiame, rendono ubertoso il raccolto e vantaggioso il prezzo dell’erba”.          

  “L’emergere durante il Trecento della signoria dei Ruffo – aggiunge Pesavento –  porterà nel 1390 il re Ladislao di Durazzo a concedere a Nicola Ruffo, primogenito del conte di Catanzaro Antonello, il titolo di marchese di Crotone. Alla metà del Quattrocento le vicende porteranno i Ruffo a dominare gran parte del territorio a destra ed a sinistra del Neto, confine tra la Calabria Ultra e Citra, ed ad unificare sotto un unico signore le terre a semina ed a pascolo dalla marina alla Sila. Nicolò Ruffo – prosegue Pesavento –  possederà: Cotrone con il titolo di marchese e Catanzaro con il titolo di conte e fra le molte terre ci saranno Ypsigro con le pertinenze di Alichia, Melissa, Policastro, Roccabernarda, Mesoraca, Castellorum Maris, Tacina, San Mauro di Caraba, Cutro, San Giovanni de Monaco, Papaniceforo, Cromito, Apriliano, Mabrocolo, Misicello, Lachani, Crepacore, Massanova, Torre dell’Isola e molte altre città e terre. Il tutto passò alla figlia Giovannella e poi alla sorella Errichetta. Con lo sposalizio tra Antonio Centelles ed Enrichetta Ruffo, anche Santa Severina con i suoi casali andrà a far parte dei possessi del marchese di Crotone. Tutte queste terre da allora saranno indicate col termine di Marchesato”.

 “Era il tempo della semina delle fave e ci siamo incamminati verso le 5. Dell’arrivo della polizia nessuno sapeva niente. La raccomandazione che avevamo avuto dai dirigenti della Federterra era di accogliere i poliziotti, se fossero arrivati, con battimani e grida d’evviva. E così fu. Alla vista dei primi agenti ci radunammo al centro di Fragalà e battemmo le mani. Come risposta giunsero i primi candelotti lacrimogeni. Qualcuno di noi li rilanciò verso lo schieramento dei celerini, a quel punto scoppiò la tragedia. I poliziotti cominciarono a sparare con le pistole ed i mitra. Un vero e proprio inferno di piombo e di fuoco”.

  E’ Peppino Nigro, testimone oculare e fratello di una delle vittime dell’Eccidio di Melissa, il ventiquattrenne Francesco Nigro, a ricordare ciò che accadde quella mattina del 29 ottobre 1949: una data importante nelle lotte agrarie in Calabria e nell’intero Meridione italiano. A raccogliere la testimonianza di Peppino Nigro,  a trent’anni dall’accaduto,  Sergio Dragone, cronista de “Il Giornale della Calabria”.                                          

A  Melissa, l’arrivo dell’esercito inviato dal ministro Mario Scelba era stato preceduto dall’occupazione  del feudo di “Fragalà”: un ampio appezzamento allora incolto ed abbandonato da ben 14 anni che, durante il fascismo, era stato ampiamente sfruttato dai Polito e dai Berlingeri, ricche e nobili famiglie di Crotone.  Quando la tragedia avvenne, l’occupazione delle terre andava avanti già da alcuni giorni.

“Il barone Giulio Berlingeri – scriveva su L’Unità” del 28 ottobre 1949  l’inviato Luca Pavolini   – ha 14 mila ettari nel Crotonese, il barone Alfonso Baracco ne ha 12.500, il barone Gallucci 6.000. Migliaia di ettari hanno il marchese Mottola, il barone Zurlo, il conte Gaetani, il principe di Cerenzia. I nobili hanno cintato questo immenso latifondo col filo spinato e hanno lasciato  che ci crescano l’erba e le macchie. Ci mandano a pascolare gli animali e nella stagione buona ci vanno a caccia”. 

Oltre a Francesco Nigro, a Fragalà,  rimasero a terra il quindicenne Giovanni Zito e la ventiquattrenne Angelina Mauro che, ricoverata all’Ospedale civile di Crotone, per le ferite riportate vi morì dopo alcuni giorni. Altri 15 contadini, invece, furono feriti in maniera più lieve.  Dopo l’eccidio, il latifondo di Fragalà fu diviso fra i contadini ed il 2 novembre 1949 rappresentò un’altra data storica poiché  furono ritirati gli sfratti a coloro che in Calabria avevano occupato 5200 ettari; mentre il 15 dello stesso mese di novembre il Consiglio dei Ministri approvò una propria proposta di riforma agraria, nella consapevolezza che ormai i tempi erano maturi ed altri rinvii non sarebbero stati più accettati dalla popolazione.

Francesco Rizza

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