Per una connotazione antropologica del Marchesato crotonese: il culto a Demetra sulla Costa ed il “Triangolo del Sangue” nella Presila.

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La coltura cerealizia ha origini antichissime in Calabria dove, anche nella provincia di Crotone, nell’età della Magna Grecia era posta sotto la protezione della  dea Demetra,  figlia delle divinità Crono e Rea sorella e consorte di Zeus.  Nel corso di un saggio presso il tempio di Apollo Aleo negli ultimi anni del XX secolo sono state recuperate alcune centinaia di frammenti ceramici e statuette fittili in gran parte raffiguranti la stessa dea raffiguranti Demetra con una fiaccola in mano ed accompagnata da un porcellino. In seguito ad altri saggi sono tornati alla luce i resti di quello che dovrebbe essere stato un focoloare ed un muro in pietrame lungo 4 metri e mezzo, largo 50 centimetro ed alto fino a 7 centimetri.

Come si evidenzia in un saggio di Giuseppe Celsi del “gruppo Archeologico Krotoniate”, l’archeologa Elena Lattanzi ritiene che questi ritrovamenti siano collegati ad un tempio dedicato appunto a Demetra.   Mentre l’Apollonium di Punta Alice – scrive Celsi –  era sta già stato monumentalizzato (VI sec. a.C), l’attivazione del santuario di Bivio Alice è da ricondurre alla fase in cui dopo la sconfitta di Sybaris, l’area settentrionale della Crotoniatide, tra il Neto ed il Fiumenicà è divenuta parte integrante della politikè chora crotoniate. La divinità femminile Demetra è legata a culti connessi con l’agricoltura, economia tipica della popolazione brettia, ma l’iconografia degli ex-voto è greca, per cui i reperti indicano che siamo in presenza di una forte integrazione culturale tra i Greci delle colonie vicine e gli indigeni che vivevano nella chora”.                                                      

  Il culto di Demetria in quello che fu la Krotoniade è attestato in alcuni santuari rurali a Cirò Marina, a Zinga di Casabona ed a Caccuri: tutti centri in cui veniva coltivato il grano. Erano proprio i campi ad essere tutelati dalla sua protezione. Nella Krotoniade, inoltre, il culto in onore di Demetra sarebbe stato portato da Pitagora la cui biografia leggendaria racconta che la sua morte, a Metaponto, sarebbe avvenuta in una grotta trasformata, successivamente, in un tempio dedicato a Demetra.  A Cirò Marina, come attesta Elio Malena, inoltre nei pressi del tempio di Apollo Aleo era situata una sorgiva che col fluire dell’acqua simboleggia il fluire della vita. A Cirò Superiore, invece,  era dedicato sempre a Demetra un altro santuario in località “Cozzo Leone” dove fra i secoli IV e III secolo avanti Cristo in un centro già abitato dall’età del ferro, era presente un altro insediamento.      

                                                                                                                                                                              Il legame fra la  Demetra e l’agricoltura, nella tradizione pagana è collegata al fatto che fu appunto lei ad aver donato la  conoscenza delle tecniche agricole: la semina, l’aratura, la mietitura e le altre correlate. Come tale era particolarmente venerata dagli abitanti delle zone rurali, in parte perché beneficavano direttamente della sua assistenza, in parte perché nelle campagne c’è una maggiore tendenza a mantenere in vita le antiche tradizioni, e Demetra aveva un ruolo centrale nella religiosità Greca delle epoche pre-classiche.   Se nell’ antichità greca e romana il culto a Demetra era attestato principalmente nei “Misteri Eleusini” tracce del suo culto sono ancora oggi i “seminati” con cui si addobbano il Giovedì Santo gli Altari della Reposizione, conosciuti anche come i “Sepolcri”. Sino agli anni ’60 del Novecento, inoltre, a Petilia Policastro la processione della Madonna del Rosario era accompagnata anche dalle “Capre Parate” che venivano abbellite con fiori di carta crespa nelle corna ed alle volte qualche collana prima di esser venute all’incarto per finanziare la festa laica della Madre di Cristo.                           

La regina della tavola nel territorio del Cirotano, conosciuto ovunque ci sia un Krotoniate verace, è la “Sardella” conosciuta anche come il “caviale del poveri”. Nel disciplinare della Sardella cui al comune di Crucoli è  stata assegnata la denominazione comunale d’origine (De.Co.), ma viene prodotta anche a Cirò Marina e Trebisacce si spiega  che si tratta di un  “composto  sclusivamente da neonate di sardine della dimensione di norma di cm 3x1x0,5, pescate in mare aperto, nel Mediterraneo, lavate, asciugate e salate per almeno tre mesi, con peperoncino rosso topepo italiano, infornato e macinato in polvere ed aromatizzato con semi di finocchio selvatico”. Le origini della Sardella sono incerte, anche se molti affermano che si tratti di una rivisitazione del “Garum”, una salsa a base di pesce consumata dagli antichi romani. In quei tempi, infatti, si usava impastare le interiora dei pesci con erbe aromatiche, utilizzandole poi per condire le pietanze. Si trattava però di una preparazione molto lunga: servivano mesi di macerazione al sole. Una pietanza che potevano permettersi solo le famiglie benestanti, che pagavano un prezzo alto, per poterla consumare. La Sardella si prepara però con ingredienti diversi e i tempi di preparazione sono molto più brevi. Inoltre può essere conservata a lungo, anche al di fuori del frigo, trattandosi di una preparazione a base di peperoncino piccante e sale.                                                     

 Se dall’età pagana si passa a quella cristiana, nel Marchesato crotonese come in altre zone della Calabria, un’importante presenza religiosa è quella dell’ Ordine Minorico che,  per avvenimenti che andiamo a descrivere, finirono col caratterizzare un’area compresa fra i comuni di Cutro, Petilia e Mesoraca che gli antropologi sono soliti definire come “Il Triangolo del Sangue”. Fra il 1500 ed il 1600, infatti, tre luoghi francescani nati con altre denominazioni vennero dedicati alla Sacra Spina quello di Petilia (già Santa Maria dei Frati), all’ Ecce Homo quello di Mesoraca (già Santa Maria delle Grazie) ed al SS.mo Crocefisso (già San Salvatore) quello di Cutro.                                           

 A Petilia Policastro, dove il primo Santo patrono cittadino è San Sebastiano martire, il convento francescano cambiò denominazione a partire dal 1523 quando alla comunità dei Frati fu donata da di mons. Dionisio Sacco arcivescovo di Reims e confessore della corte di Francia e una leggendaria Sacra Spina della corona di Cristo ottenuta dalla regina Giovanna De Valois.  Appuntamento storico religioso che ogni anno raduna centinaia di fedeli in questo luogo di fede è il pellegrinaggio penitenziale del secondo venerdì di marzo quando la cittadina dell’ alto Marchesato crotonese fa memoria del terremoto dell’8 marzo 1832. Furono 29 i Petilini che persero la vita per la tremenda scossa di terremoto e, secondo la tradizione, i morti sarebbero stati molti di più se non si fosse registrata la tutela della Sacra Spina. La processione che parte dalla chiesa di san Francesco da Paola rappresenta la salita di Cristo verso il “Golgota”.           

A congiungere i  santuari di Mesoraca e Cutro, invece, due pregevoli  sculture lignee opere del beato frate Umile da Petralia, nelle Madonie palermitane. Nato da Giovan Tommaso Pitorno e Antonia Buongiorno nelle Madonie siciliane, Giovanni Francesco Pitorno ancora giovinetto fu inviato dalla famiglia a Palermo dove perfezionò la propria arte prima di decidere di entrare nell’Ordine francescano. Successivamente,  come scrisse padre Guglielmo Nitti nel Siberene”  del marzo aprile 1920, “dedicò tutto il tempo della sua santissima vita a scolpire sul legno immagini di Gesù che si venerano tuttora in Sicilia, a Malta, in Calabria, in Puglia ed altrove. Passò a miglior vita nel convento di Sant’ Antonio  in Palermo nella mattinata del 9 febbraio 1639 ed operò miracoli”.                                                                                                                             

 Descrivendo le opere d’arte dello stesso Fraticello,  padre Nitti osserva che è sempre lo stesso colorito, l’istessa espressione solenne da martire che patisce con rassegnazione. Non mancano neppure i soliti contrassegni delle statue di Gesù scolpite da frate Umile: una spina pungentissima che, partendo dalla corona, fora il ciglio dell’occhio destro e giunge fin sopra la pupilla e le lividure e i rigonfiamenti delle mani, causati dalle strette legature delle funi”.  Non sappiano l’anno preciso della scultura mesorachese, ma alla stessa sono collegati numerosi miracoli. Per la storia del santuario mesorachese, lo stesso dopo essere stato fondato da Monaci basiliani prima dell’anno 1000 passò ai Francescani nel XVI secolo quando il 14 ottobre 1.419 papa Martino V assegnò ai figli spirituali di San Francesco l’antico cenobio scrivendo appositamente una bolla inviata ad Angelo, arcivescovo di Santa Severina.                                                                                

Per la scultura mesorachese dell’ Ecce Homo caratterizzata a detta di Anna Russano Cotrone  dalla “forte drammaticità caratterizza quest’immagine con i polsi legati davanti e sanguinose ferite” e dalla “anatomia esile e testa leggermente più grande rispetto al corpo. La festa settennale si svolge nel mese di agosto quando sono numerosi gi emigrati che fanno ritorno a Mesoraca appositamente a prendere parte a questo momento di fede. altri due momenti di devozione verso la sacra scultura avvengono nel mese di marzo, l’8 ed il 21 in ricordo dei tremendi terremoti del 1.744 e del 1832.                                                                                                  

 Se dai contrafforti della Sila si scende verso il medio Jonio, è a Cutro che il “Triangolo del sangue” si chiude. il Crocefisso cutrese, a detta degli storici fu scolpito dal beato Umile verso il  1.626 venendo dichiarato “monumento nazionale” nel 1940. Il cenobio cutrese, a detta dello storico francescano frate Primaldo Coco, fu costruito sui resti di un antico monastero probabilmente basiliano; essendo superiore della custodia minorica di Cosenza il cutrese fr. Giacomo da Cutro.

Nel  Crocefisso cutrese è, principalmente, il volto ad affascinare i fedeli per le sue fattezze.  A seconda dall’angolazione dalla quale viene ammirato, infatti, sembra che ne cambino le espressioni dello sguardo, dal sorriso alla sofferenza della morte. “Quannu m’ha vidutu – avrebbe chiesto  lo stesso Cristo nel corso di un suo momento di estasi – ka tantu piatusu m’ha faciutu?”. Come si narra in uno scritto di Antonio Piterà, primicerio della Collegiata, la prima festa settennale avvenne nel 1861. Nel 1860, infatti,  il Crocefisso era stato portato in processione della popolazione che , chiedeva il miracolo della pioggia dopo una lunga siccità. Nel primo dei due giorni di festa, il Crocifisso viene calato dalla teca posta sull’altare maggiore mediante una complicata operazione alla quale assistono numerosi fedeli. Il giorno successivo il Crocefisso viene portato in processione nella cittadina incontrando, nei pressi della chiesa di san Rocco, le statue della Vergine, di san Giuseppe e San Giuliano che si aggiungono processione. Secondo la devozione popolare è come se con questa processione, anche i Santi sentono la necessità di seguire il Crocefisso nella consapevolezza che, senza la morte e la resurrezione di Cristo, come scrisse san Paolo apostolo “vana sarebbe la nostra fede”.                                                 

Fra i prodotti più noti ottenuti dal grano del Crotonese, quello più famoso è il pane di Cutro che ha già ottenuto  marchio De.Co. e si appresta ad ottenere il marchio D.O.P.I suoi ingredienti, per una forma di circa un chilo sono:  750 grammi di farina di grano duro; 250 grammi di farina di grano tenero tipo”0”; 600 millilitri  di acqua a 20°C; 20 grammi di sale; 250 grammi di lievito madre (in alternativa 70 gr. di lievito madre essiccato).

   Francesco Rizza

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