Luigi Capozza: Considerazioni sparse (e inattuali?) sulla terra di Calabria e il Meridione – Prima puntata

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Scriveva Luis Sepulveda “Un popolo senza memoria è un popolo senza futuro”. Senza memoria. È la condizione in cui vengono tenuti il Meridione e, in particolar modo, la Calabria, a cui viene riconosciuta solo un’antichissima civiltà, quella magnogreca, e neanche autoctona. Per il resto: deserto storico, arretratezza e inferiorità etnico-antropologica. Il veneto-piemontese Lombroso, il siculo-lazial-emiliano Giuseppe Sergi e il siculo-laziale Alfredo Niceforo attribuivano la condizione del Sud alla inferiorità della razza mediterranea, incapace strutturalmente di votarsi al progresso.

 Le cose stanno davvero così? Per chiarirci le ide, leggiamo un passo di Nicola Zitara: «Siamo stati un grande popolo, abbiamo una grande storia. Non c’era alcun bisogno che arrivasse Garibaldi per insegnarci la libertà, sapevamo difenderla per antiche virtù, l’avevamo difesa in cento passaggi della storia. Siamo stati grandi quanto gli altri, qualche volta più degli altri. Siamo stati civili quanto gli altri, qualche volta più degli altri. Il nostro passato non è lontano millenni, come si racconta, ma solo centocinquant’anni. È necessario che la coltre di bugie che circonda la nostra identità collettiva sia fugata. La consapevolezza del passato ci aprirà gli occhi e ci permetterà di guardare al futuro!».

Aggiungiamo qualche verso di una canzone, A Genti Calabrisi, di Mimmo Martino: «Amici chi sintiti ora vi cuntu / ‘na storia scunsulata di ‘na terra / […] / A genti calabrisi stava quèta, / […] / […]/ ‘Sta terra fu passata i parti a parti; / turchi, normanni e ‘ngrisi viaggiaturi, / greci, spagnoli, di tutti li parti, / d’ebrei, di santi e puru du Signuri. / A genti calabrisi esti ospitali, / si teni a tutti quanti nte so’ brazza. / Pi iddhi tuttu chistu esti normali / E intantu s’arricchìa cultura e razza. / Ma poi rrivàru li cammici rrussi. / Dicivinu: “L’Italia s’av’a fari!” / Cu quattro botti e du’ lisci e bussi: / “… di lu nemicu v’aim’a liberari”. / A genti calabrisi si truvau, / c’un novu statu chinu d’ntrallazzi. / ‘U mari e la campagna bbandunau / pi fari frunti a pisi, tassi e dazi. / ‘U piemontesi: ‘ngurdu e prepotenti / ‘sta terra senza leggi la lassau, / si sbacantau di tuttu […] / Cussi rrivau la mafia ndi ‘sti terri / […] / Ora ristaru li catini e i ferri, / ‘na malatìa, ‘na maledizioni. / A genti calabrisi era ospitali, / tiniva a tutti quanti nte so’ brazza. / Pi iddhi tuttu chistu era normali, / Ora ‘nto grembu so’ nc’è malarrazza»).

Il quadro storico dei secoli XV e XVI non è certo quello di un periodo tranquillo e pacificato. Appare vero piuttosto il contrario. Dopo il relativo periodo di calma dovuto alla Pace di Lodi del 9 aprile 1454, col 1494 si riaprono le Guerre d’Italia che sanciranno quella che verrà chiamata “fine della libertà italiana”: l’Italia diventa il campo di battaglia delle guerre e conquiste straniere. Dunque al termine “Rinascimento” bisognerà trovare un’altra origine che non sia quella politica o contemplativa. Il primo ad usare la parola “Rinascita” dicono che fu Giorgio Vasari nelle sue Vite… Storicamente, però, il termine “Rinascimento” si deve allo storico francese Jules Michelet nel 1841, ripreso nel 1860 dallo storico e scrittore svizzero Jacob Burckhardt, ma come fenomeno essenzialmente fiorentino e di rivolta contro la civiltà, che fu detta medioevale. Il Medioevo come “periodo buio” fu lezione accolta inizialmente anche da Eugenio Garin, il quale invece poi elaborò in buona sostanza l’affermazione dello storico tedesco Konrad Burdach della continuità tra Medioevo e Rinascimento e di quest’ultimo come invenzione religiosa italiana.

Questo medesimo concetto svilupparono la Scuola degli Annales ed Etienne Gilson, e già tra XIV e XV secolo Flavio Biondo. In verità, si parla già tra VI e IX secolo di “rinascenza” Longobarda e Carolingia, dell’ottoniana, a partire da Enrico I. Nell’ XI secolo di quella dell’anno Mille e della francese (Chartres e Orlèans) del XII secolo, con il suo rinnovato amore per i classici, specie latini, e la nascita delle Università in Italia e altrove. In tutti questi movimenti storici e culturali, non va dimenticata allora la figura di Federico II, l’autentico estensore della prima Costituzione moderna, quella melfitana, essendo la Magna Charta nient’altro che una rivendicazione di tipo feudale e di libertà feudali. Dunque il concetto di Rinascimento attraversa senza soluzione di continuità tutta la storia d’Europa fin dal Medioevo. Gli stessi Scolastici cristiani, Roger Bacon, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, rivalutarono quelle che furono tra le principali cifre filosofiche rinascimentali per definire la potenza umana e il suo dominio sulla natura, e cioè la magia e l’alchimia. Lo stesso Burdach, d’altronde, si richiama a S. Francesco d’Assisi e a Gioacchino da Fiore. E non potrebbe davvero essere diversamente, poiché la parola stessa “Rinascimento” rimanda inevitabilmente alla sfera spirituale e religiosa dell’uomo, come riconosciuto dallo stesso Pico della Mirandola con la sua concezione dell’immortalità dell’anima, della dignità e libertà dell’uomo e della potenza creatrice di Dio.

 Se ne può concludere, allora, che il Rinascimento è la conseguenza di un’antica idea, che investe nei suoi risultati finali la centralità dell’uomo nel creato, il quale però, anche biblicamente, è soggetto alla signoria dell’uomo stesso come colui che partecipa all’opera creatrice di Dio. Bene. Ma che c’entra il Rinascimento propriamente detto con la Calabria? L’interpretazione del Rinascimento avrebbe poco senso se, come ancora purtroppo sostengono distratti storici e letterati, anche di casa nostra, non si comprendesse che esso, coi suoi prodromi umanistici, è legato in un trinomio indissolubile alla Calabria e, in generale, al Mediterraneo, chiamiamolo meridionale. Sarebbe del resto incomprensibile, se non votandosi alla magia e ad una presunta superiorità razziale, pensare al Rinascimento attribuendolo alla sola matrice fiorentina e non al bisogno di rinnovamento almeno spirituale e culturale e al concorso di tutte le popolazioni italiche.

Andiamo, allora, un po’ indietro nel tempo. Credo possiamo ritenere una nozione acquisita che senza le condizioni create dall’Umanesimo sarebbe ben difficile, se non impossibile, parlare di Rinascimento. Ma gli Umanisti, che si erano accorti come si sa delle, chiamiamole così, svirgolate di tanti amanuensi, da dove mai potevano apprendere quelle competenze sulle lingue classiche in modo originario e originale? È nella risposta a questa domanda che entra in gioco soprattutto la Calabria.

Luigi Capozza

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