La Calabria, Cesare Pavese, Corrado Alvaro. Spigolature letterarie.

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“Quello di Pavese con la Calabria è stato un incontro casuale, ma non un accadimento ininfluente o irrilevante. Non enfatizzato e non esaltato, questo legame con un luogo particolare del Mezzogiorno d’Italia per Pavese è stato forse più decisivo di quanto non lo sia stato per altri visitatori occasionali, o per chi lo ha scelto enfatizzando la decisione”.

Se ne dice convinto l’antropologo Vito Teti che, nelle proprie “scheggie d’intimità” rubria quasi quotidiana in Facebook osserva come la presenza dello scrittore delle Langhe piemontesi a Brancaleone, in provincia di Reggio Calabria, ebbe un’importanza importantissima nella sua biografia successiva.


“Negli ultimi anni – osserva l’Antropologo dell’ Unical – alcuni studiosi hanno avuto il merito di mostrare come, nonostante non abbia lasciato intenzionali resoconti o cronache o libri sulla Calabria e sul suo confino lo scrittore non sia stato indifferente all’ambiente in cui è vissuto e come Brancaleone, i suoi luoghi, i suoi abitanti non siano stati indifferenti per i suoi scritti e la sua poetica successivi. Questa sera, sotto le rocce rosse lunari, pensavo come sarebbe di una grande poesia mostrare il dio incarnato in questo luogo, con tutte le allusioni d’immagini che simile tratto consentirebbe”.

Nella cittadina dello Jonio reggiono, grazie alla fondazione “pavese” che se nè presa cura, è ancora visitabile una  stanzetta che affaccia direttamente sulla strada, vista mare. Solo i binari della ferrovia a frapporsi al panorama. Fu in questi pochi metri quadrati che lo scrittore  scontò il confino, dal 4 agosto 1935 al 15 marzo del 1936. 

L’ Autore di “La Luna e il Falò” che alcuni critici ritengono la “Divina Commedia” della letteratura italiana novecentesca era stato esiliato per   l’accusa da parte del regime fascista di essere un sovversivo. Le sue frequentazioni con gli intellettuali del tempo aderenti a “Giustizia e Libertà”, con gli Antifascisti  come Leone Ginzburg, Giulio Einaudi e, la corrispondenza con Altiero Spinelli, insieme al suo modo di vedere il mondo lo condannarono alla prigione. Nel 1935, molti intellettuali italiani, invisi al fascismo, furono arrestati.

Da Brancaleone, Pavese scrisse tantissime lettere alla sorella Maria. Raccontava la sua vita, la sua solitudine e lo scorrere del tempo in un paese in cui si sentiva accolto “Qui ho trovato una grande accoglienza. Brave persone, abituate a peggio, cercano di tenermi buono e caro”. E ancora: “La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca”.   

Intenso il rapporto che, come osserva Vito treti, si venne a creare fra il piemontese Pavese ed il calabrese Corrado Alvaro citato in una lettera ad Augusto Monti in cui, l’11 settembre 1935, Pavese osserva come “sono a pochi chilometri dal paese di Corrado Alvaro. Ma io lo preferivo nei libri”.

 L’Alvaro conosciuto e preferito da Cesare Pavese è  quello dei primi racconti, della raccolta Gente in Aspromonte (1930), probabilmente del libretto Calabria (1931).  Quella alvariana conosciuta dallo scrittore delle Langhe, osserva Vito Teti “è una Calabria dove la vita “non è bella” dove le persone (è il caso della vicina Africo) mangiano pane di ghiande, come ricorda in quegli anni Zanotti Bianco . Nello stesso tempo è una terra mobile, dinamica, attraversata da figure in-quiete, una terra in fuga, dove sono in viaggio anche le persone che stanno ferme”.

“L’emigrazione era, a partire dalla fine dell’Ottocento – aggiunge Vito Teti – la causa dello spopolamento di molti centri abitati, l’altro grande fattore di trasformazione, una della causa della modernizzazione di quei luoghi. Brancaleone offriva un chiaro esempio di mobilità, di popolazioni provenienti dall’interno e da paesi diversi, un luogo d’incontro di attività produttive ed economiche (agricoltura, pastorizia, pesca, commerci) e dove la tradizione si coniugava con una serie di novità che arrivavano dall’esterno”.

Una tematica che, a nostro parere, unisce i due Scrittori del Novecento italiano è l’attenzione agli studi folkoristici e popolari. Da parte sua, Cesare Pavese, avvalendosi di varie fonti come   la “Scienza nuova di Vico, ma anche le pubblicazioni più recenti di  Carl Gustav Jung e di Ernesto De Martino ,i arriva a scoprire nel mito una forma di conoscenza e rappresentazione della realtà superiore a quella attingibile mediante la logica razionale. Lo sforzo di elaborazione teorica di una poetica del mito trova spazio, in particolare, nei racconti e nei saggi pubblica­ti da Pavese nelle raccolte “Feria d’agosto” (1946) e “Dialoghi con Leucò” (1947).

Alla ricerca di una maniera espressiva in cui fondere “la ricchezza di esperienze del realismo” e “la profondità di sensi del simbolismo”, la riflessione pavesiana si appunta sul valore del passato e sull’importanza dei ricordi, scoprendo la centralità dell’infanzia come età delicata e privilegiata: un’età di straordinaria forza e intensità percettiva, durante la quale ogni individuo si forma un proprio codice interpretativo, destinato a durare per tutta la vita.

E l’antropologia particolarmente quella  calabrese, con i suoi numerosi rimandi a quello “spirito greco” che la rappresenta, è uuna costante anche degli scritti di Corrado Alvaro, non solo del suo più celebre romanzo “Gente In Aspromonte”.

Nonostante fu uomo dei suoi tempi e cittadino del mondo, lo  Scrittore di San Luca pur rimanendo affascinato delle   metropoli che mano mano si allargavano e progredivano rimase affascinato rimase, per tutta la sua esistenza e lungo i suoi tragitti letterari complessi, uno scrittore dei contadini e delle tradizioni, della borghesia e della sua ambiguità, del mondo arcaico e di quello quello della civiltà moderna. Un narratore che sapeva sdoppiarsi, dunque, tra città e campagna, natura, avanguardia, descrizione dei luoghi e dei paesaggi, realismo, saggistica.

Francesco Rizza

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