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In località Castagna nel comune di Carlopoli si trova uno dei “Luoghi del Cuore” calabresi del “Fondo Italiano Ambiente”, quella abbazia di Santa Maria di Corazzo per la quale sono partiti recentemente importanti lavori di restauro guidati dall’ architetto Pasquale Lopetrone. La storia del luogo attesta che quella di Corazzo fu una abbazia benedettina fondata nel XI secolo. Situata fra i boschi della valle del fiume Corace.
L’antico monastero, che ospitò fra gli altri monaci Gioacchino da Fiore è stato ripetutamente danneggiato e ricostruito a causa della fragilità del territorio in cui è ubicato. La prima ristrutturazione fu ad opera dei Monaci cistercensi nel XII secolo. Altri interventi furono necessari in seguito ad eventi naturali, come il terremoto del Marzo del 1638 e quello del 1783. L’Abbazia fu abbandonata dopo quest’ultimo evento sismico. Il terremoto del 1783 si rivelò troppo violento: il monastero subì danni enormi, impossibili da riparare all’epoca.
Nel 1806, le 34 persone registrate all’interno dell’Abbazia, andarono via e la struttura fu soppressa. Le opere contenute al suo interno (tra cui l’altare maggiore, composto da marmi policromi, l’organo, lo stemma e tre statue lignee) vennero suddivise con altre sedi religiose. Oggi tutte queste opere possono essere ammirate nelle chiese situate nei comuni limitrofi a Carlopoli. Come osserva Pasquale Lopetone, l’abbazia prende il nome dal contiguo Corace il ruscello che attraversa i territori su cui sorgono le rovine. “La zona – evidenzia l’architetto – oggi sembra remota ma in antichità era percorsa dalla strada che collegava Cosenza a Catanzaro, perciò non isolata. Da qui transitò, intorno al 1173, Gioacchino da Celico, sostandovi durante il viaggio di andata e ritorno compiuto a Catanzaro, per ricevere dal vescovo ‘gli ordini sacri che precedono il sacerdozio”.
Gioacchino istituì a Corazzo uno scriptorium e qui scrisse, a partire dal 1176, una dozzina di opere. Nel 1188, dopo avere affiliato la sua abbazia a quella cistercense di Fossanova, lasciò quella comunità e si rifugiò prima a Pietralata e poi, dal 1189, a Fiore. “L’abbazia, nei tempi successivi, visse nello splendore – conclude l’architetto – e si avviò al decadenza solo nella seconda metà del XV secolo. Il cenobio fu gravemente danneggiato dal terremoto del 1638 e di seguito ricostruito. Tra il 1757 e il 1768 le fabbriche cadenti del monastero furono ampliate e rammodernate e la chiesa, completamente rifatta, riconsacrata nel 1769”. Dopo il terremoto del 1783, che causò danni irreparabili, sul complesso cadde il silenzio tombale. Nel 1807 i beni passarono al demanio.
Nei pressi dell’ Abazia di Corazzo, ecco le tracce di un altro antico luogo di fede: la crangia di Montauro. “In passato – ha scritto Chiara Raimondo in “Il CalabrOne – Speciale Golfo di Squillace” (luglio 2017) – il senso e la ricerca di armonizzazione tra le opere architettoniche e l’ambiente, nel quale queste sorgevano, determinavano, determinava la creazione di edifici che si integravano totalmente con il paesaggio circostante senza aggredirlo, quasi confondendosi con esso grazie anche all’utilizzo, come materiali di costruzione, delle risorse reperibili in loco”. “Un esempio di questa armonica integrazione – aggiunge la studiosa – è rappresentato dalla grangia di Sant’Anna a Montauro. Percorrendo la strada che congiunge Montauro a Gasperina, appare tra gli olivi questo grande edificio che si staglia tra il mar Jonio ad est e la fascia pedimontana delle Serre ad ovest, su un pianoro a circa 400 metri sul livello del mare”.
Nell’ intenso rapporto fra i Normanni ed i Certosini di Serra San Bruno, nell’area del Lametino ebbe una primaria importanza in ambito agricolo oltre che religiosa la grangia di Montauro, concepita nel 1114 e attrezzata con gli annessi idonei alla raccolta e alla lavorazione dei prodotti agricoli. Ben presto la stessa grangia divenne una vera e propria fattoria dormitorio, refettorio e cappella per le funzioni religiose, atta anche a ospitare i monaci più anziani.
La gestione era affidata a un Procuratore, che la amministrava come “satellite” della Certosa. Tra il 1192 e il 1193, la Certosa calabrese e tutti i suoi possedimenti passarono sotto l’Ordine cistercense, che comportò il cambio del nome della Grangia di Montauro, intitolata a Sant’Anna. Il terremoto del 1783 distrusse la Grangia, ma le sue rovine non solo si possono ancora osservare, ma sono attenzionate dal Comune interessato alla sua consolidazione. I terreni della grancia di Sant’Anna erano utilizzati alla coltivazione della viti, dell’ulivo, dei cereali e del gelso le cui foglie vengono ancora utilizzate per alimentare i bachi da seta la cui collaborazione fu ampiamente diffusa in quest’area calabrese.
“La grangia – aggiunge la Rotundo – dal latino granarium e dal francese graner, il luogo dove si conservava il grano, rappresentava in particolar fra il XIII ed il XIV secolo u modello di azienda agricola compatta intorno ad un unico centro di gestione cui facevano capo i terreni e le pertinenze che costituivano il suo patrimonio”. Questa era, appunto, uno degli utilizzi della grangia di Montauro.
Francesco Rizza
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