Il garibaldino Vincenzo Ammirà e le sue poesie

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Non è facile la vita degli scrittori e dei poeti calabresi, neppure dopo morti quando a differenza di quanto capiterebbe loro in altre Regioni italiane, non trovano tutti i riconoscimenti che meriterebbero. Ciò, per esempio, è quanto è capitato a Vincenzo Ammirà che solo nel 1990,  troppo spesso ci si imbatte in biografie che meriterebbero quell’attenzione che, altrove, su impulso dell’ associazione Kiwanis, si vide dedicare dall’Amministrazione comunale di Vibo Valentia, dove nacque e visse,  una piazza ed un busto marmoreo.

Il poeta  Vincenzo Ammirà si era formato alla scuola di un altro fervente liberale: l’umanista   Raffaele Buccarelli, infiammandosi delle idee liberali del maestro. Fu anche per questo che fu tra i principali promotori del Comitato rivoluzionario monteleonese, prendendo  parte ad  un assalto della gendarmeria cittadina  nel 1848. Alla fine del 1847,  celebrò i cinque martiri di Gerace uccisi il 5 ottobre di quell’anno. Tale attività politica gli attirò  l’attenzione delle Forze dell’Ordine e dei Funzionari borbonici agli occhi delle quali appariva come un rivoluzionario da bloccare in qualsiasi modo. Era, per esempio,  il 1854 quando dovette subire due mesi di esilio perché nella sua abitazione erano  stati trovati due libri contrari al “buon costume”: uno era il “Decamerone” di Giovanni Boccaccio e l’altro era la sua “Ceceide”: un poemetto dialettale la cui prima parte fu composto di getto su sollecitazione dell’amico Saverio Costanzo, ricorrendo l’anniversario della scomparsa della meretrice e ruffiana Cecia.

 Anche dopo l’esilio, in vero,  la persecuzione nei suoi confronti continuò a lungo. Nel 1858 fu incarcerato ma con l’arrivo di Garibaldi a Monteleone, l’attuale Vibo Valentia si unì al generale seguendolo a Soveria Mannelli. Successivamente ottenne una cattedra nel liceo della sua Città lavorando anche al Dazio.

“Certo tipo di letteratura che non riesce a superare i limiti imposti da una moralità beghina ed artificiosa – osserva Sharo Gambino nella propria “Antologia della poesia dialettale calabrese” –  fa ritenere come il capolavoro di Ammirà “La Pippa” composta nella maturità non trovando il coraggio di dire che, invece, il lavoro migliore del poeta vibonese è, senza dubbio alcuno, proprio la censuratissima “Cecide”, un poemetto di 493 versi, agile, fresco, sincero,ben inventato, il quale ha il raro pregio di essere stato pensato e scritto in dialetto, con un linguaggio popolaresco e perciò efficientissimo, espressivo, adatto quindi, a dare suono e colore alla bizzarra vicenda”.

“Di lirismo di tono leggermente minore  sono  – aggiunge –“L’ Amanti alla Fossa di l’Amata” e “Na Sirinata” due componimenti brevi e colmi di sentimento, d’amore disperato per la morte della donna amata e nel secodo per l’indifferenza e addirittura per la crudeltà con cui viene respinto lo sfortunato spasimante. Una mamma canta la sua creatura in “La Ninna”. Ammirà scrisse questa poesia nel 1843 e forse non si accorse mai di aver creato un canto fra i più belli ed i più teneri, assai somigliante ad uno di quelli che si sentono spesso, ancora, sulle bocche delle donne del popolo”.

Venendo a quella che numerosi critici ritengono sia stata la migliore delle sue opere, “La Cecide” per esaltare la quale gran parte dei critici hanno prestato scarsa attenzione alle altre sue opere, si tratta di un poemetto di 493 versi e rappresenta il testamento ideale  della più famosa prostituta di Monteleone, la tropeana Cecia. Amata da “nobili e popolani”, da uomini di cultura ed addirittura da  “santi prevituni”, Cecia era fra le più famose donne di strada del circondario. La sua ode divenne ben presto, come era nelle idealità di Ammmirà, un inno alla libertà in un ambiente, quello di Monteleone, repressivo come tutti gli ambienti falsamente moralisti che l’Autore  mette allo sberleffo ricordando, fra le altre cose, che  fra i clienti della Cecia ci fosse anche  il noto filosofo Pasquale Galluppi. Inoltre, il poemetto è la celebrazione del corpo di Cecia vista come una sorta di metafora cha fonda le radici addirittura nel sostrato magno greco di Hipponion collegandosi a quelle donne che erano autosufficienti ed autonome. Capita dunque che “come per un richiamo ancestrale – osserva Antonio Pirolamlli –  Cecia è esaltata ancora come simbolo di liberazione singola e collettiva liberazione dal soffocamento di credenze restrittive. La Cecide diventa grido di libertà contro la reazione e la repressione dei Borbone”.

Abbozzando appena un itinerario nella poesia di Ammirà non possiamo che osservare  nne “Lu Cori Calavrisi” il suo intenso amore per la propria terra “Tegnu ‘nu cori / dintra stu pettu, / chi junta e strepita / non ha rigettu./ Cchiù di lu suli / chi coddija./  Vruscia e abbampa, / Mi tumbulija ./ E’ tuttu latti, / non havi feli ./E’ duci e tennaru / comu ‘nu meli ./ Cchiù di li turturi / Senti l’amuri , / E amandu spasima / Li jorna e l’uri ./ La sula occhiata / Di ‘na bejizza  abbasta subbitu/ Mu lu ‘ncapizza./ Ma si lu sdegni / si movi a l’ira , / Diventa vipara, cchiù non  si tira”.

A noi ricordano Leopardi e gli analoghi versi del poeta di Recanati nei confronti dell’unico satellite terrestre i versi della sua poesia “A La Luna”, composta da ottenari e settenari alternati in cui la poetica di Ammmirà raggiunge una potenza espressiva altissima che consente al suo spirito tormentato di esprimersi a pieno attraverso i suoi versi. Pecchì stai malinconica / Sempri , pecchì penzusa ? O Luna mi fai  ciangiari / Standu accussì piatusa./ pari assulata , pallida, / la mamma di li guai , / Scanzi lu jornu e l’umidu / Poi passijandu vai ./ Ieu t’assimigghiu propriu , Gromula nd’assaggiai , / M’inchjiu la brutta ‘mbidia / di tanti e tanti guai ./ ma su comu ‘nu marmaru, / Non tremu e mai non cangiu,/ Sputazza e la miseria/ Sumportu ma non ciangiu”.

Un vero e proprio inno all’ amicizia, composto negli ultimi anni della sua vita da “poeta maledetto” è il poemetto di Vincenzo Ammirà dedicato a “La Pippa” l’unica, forse, capace di capirlo e se non di amarlo quanto meno di rispettarlo “Cara, fidata cumpagna mia, \ affumicata pippa di crita,\ tu di chist’anima gioia, allegria \ tu sai la storia di la mia vita \ e nuju, nuju miegghiu di tia, pe quant’è longa, quant’è pulita; tu m’ajutavi quando la musa \ facia lu ‘ngnocculu, trovava scusa. Di dudic’anni ‘mbucca ti misi \ mi piacisti, ti spissijai \ di jornu a jornu, di misi a misi \ cchiù ti gustava, chiù mi ‘ncarnai”.

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