Il Cosentino rinascimentale nel processo di canonizzazione di San Francesco da Paola.

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Era il 13 maggio 1512 quando papa Giulio II apriva il processo di canonizzazione di San Francesco da Paola, invitando l’ Arcidiocesi di Cosenza dove l’ Eremita era nato e di Tours, dove aveva trascorso gli ultimi anni di vitata, a raccogliere tutte le testimonianze utili a dimostrarne l’eroicità delle virtù cristiane. Nonostante fossero passati pochi anni dalla morte dello stesso Taumaturgo, numerose erano le richieste che erano arrivate alla Curia vaticana affinché lo stesso processo venisse aperto nel più breve tempo possibile. Fra le più pressanti quelle di Anna di Bretagna regina di Francia e di padre Francesco Binet procuratore generale dell’ Ordine dei Minimi che era stata fondata dallo stesso San Francesco.

La necessità di svolgere nel più breve tempo possibile lo stesso processo era collegato alla considerazione che il Taumaturgo calabrese era partito da Paola e dalla Calabria il 2 febbraio 1483 e, col passare di altro tempo, sarebbero potuti morire i testimoni della santità di colui che sarebbe diventato san Francesco in terra di Calabria. Nell’ Arcidiocesi cosentina furono nominati curatori del processo monsignor Giovanni Sersale vescovo di Cariati, don Bernardino Cavalcanti cantore della Cattedrale cosentina ed il notaio apostolico don Nicolò Sparvieri che fu nominato segretario della Commissione.

Il 15 giugno 1512 mons. Sersale stilò un proprio decreto per avvertire l’ Arcidiocesi dell’avvio dell’ atteso processo di canonizzazione ed invitare tutti coloro che fossero a conoscenza di fatti sovrannaturali collegati al Taumaturgo paolano a rendere pubbliche le proprie testimonianze nel corso del processo diocesano che si svolse dal 4 luglio 1512 al 19 gennaio 1513. Complessivamente i testi ascoltati furono 102 e fra di loro 12 donne. Quattro furono, invece, le sedi del processo: dal 4 al 19 luglio 1512 a Cosenza con sei sedute, dal 20 luglio al 10 agosto a San Lucio con tre sedute, il 3 e 4 agosto a Paterno Calabro dove si raccolsero ben 38 testimonianze ed a Corigliano Calabro dove, nell’ultimo giorno del processo vennero verbalizzate due testimonianze.

Attualmente una copia del verbale è conservato in un codice della Curia romana dell’ Ordine dei Minimi formato da 94 fogli redatti non in latino ma in quell’idioma calabrese che era palato nella Provincia cosentina negli anni del Rinascimento. Anche per questo, come vedremo, nonostante l’apparente esiguità del testo (cm 27 x 20 cm e 1,5 di dorso) del codice, lo stesso verbale raccoglie, per chi sa leggerle, numerose notizie sul Cosentino non solo dal punto di vista religioso. I 102 testi, infatti, non erano obbligati a testimoniare e quello che raccontavano lo raccontavano di propria volontà e, quindi, nella propria genuinità collegata anche alle varie estrazioni sociali di appartenenza. Capita così che, unitamente alla biografia di san Francesco da Paola scritta da un frate a Lui contemporaneo e rimasto anonimo, sono proprio le testimonianze del processo le testimonianze più veritiere sulla vita dell’ Eremita paolano.

 Fra le notizie che possiamo trarre dallo stesso processo quella che san Francesco da Paola non era analfabeta come ha a lungo raccontato una certa storiografia. Il teste Francesco De Forio di Cosenza, per esempio, racconta che essendosi recato dal Frate a Paterno Calabro lo trovò nel bosco situato a circa un miglio del convento “dove erano circa 300 persone maculi et femmine et predicava declamando lo Evangelo”. Il teste Fabius De Senatore  da parte sua aggiunge che “dicto frate Francisco se inginocchiao et fice orazione a Dio e fatta orazione scripse una lettera a mastro Paolo De La Cava che stava a Cosenza ché liberamente incominnassi a curare dello Joanne”.  Da questi due brevi stralci si eccepisce non solo che l’Eremita paolano aveva una cultura religiosa che gli permetteva di predicare in pubblico ma anche che era capace di scrivere come spesso fece con medici cui affidava, per umiltà, i fedeli che da Lui si recavano.

Dal punto di vista linguistico, il processo canonico conserva varie espressioni e costrutti della lingua calabrese del tempo attestando, fra le altre cose, numerosi influssi nello stesso idioma dal greco, da latino, ma anche del francese e dello spagnolo e dell’ albanese. Di particolare rilievo, dal punto di vista fonetico, è la posizione di alcune consonanti doppie e di altre con costrutti  esteri  come quelli attestati dai nessi “gla”, “glo”, “gle” che pronunciandosi probabilmente “glia”, “glio” e “glie”richiamano la pronuncia palatale della moullé francese o una derivazione spagnola dalla doppia elle dei “halla” ed “estella”. Il verbo avere, inoltre, sempre preceduto dall’ h alla latina e questo ci permette di intuire che nella pronuncia esisteva l’aspirazione. Oltre che nelle forme del verbo avere, la h precede tutte le parole che l’hanno anche in latino come “horto”, “honestamente”, “hobbedencia”. Per i verbi al passato si notano, inoltre, alcuni latinismo nelle forme finali in “ao”: “ritornao”, “andao” o “pigliao”.

Nell’ambito medico scientifico il codice consente di apprendere alcune informazioni sul tempo in cui è stato redatto. San Francesco, raccontano i testi, manda un giovane che era stato colpito mortalmente perché “vi erano medici sufficienti ad possiarlo guarire”. Fra questi medici vengono citati più volte mastro Paolo De la Cava chirurgo e mastro Ruggero De Parise  “dottore famosissimo”.

Fra le 10 domande canoniche cui i testi erano inviati a rispondere è quella relativa ai miracoli ricevuti a descrivere le problematiche sanitarie della Calabria al tempo di san Francesco da Paola. Le malattie più frequenti la cecità assoluta, l’epilessia, alcune piaghe chiamate “postheuma” ritenute inguaribili dai medici ed il cancro, chiamato “cianco”da tre fedeli che furono guariti dal Santo: i paolani Antonio Zarlo e Nicola Giacunta e Giovanni Calibrino. Un’altra malattia che appare ne codice è la peste dalla quale il Taumaturgo calabrese guarì almeno tre persone come hanno attestato nel processo Andrea Celestre e Fabiano Senatore che fecero la propria deposizione nella seduta del 3 dicembre 1512 ed il fratello di un altro malato: Giovanni Varachello. Mentre uno dei tre malati di di lebbra è un giovinetto di Torano  che, non avendo ancora l’età di  viaggiare, avrebbe preso la malattia in loco, non rientra in questa casistica il caso di “un galantuomo di Cosenza di nome Liberto” che, invece, era probabilmente un commerciante.

Ovviamente alquanto ampia la descrizione, nel codice, della città di Paola. Dal punto di vista politico e religioso, le risposte alla prima delle domande si attesta l’ortodossia della Città tirrenica e del suo territorio circonvicino fedele alla Curia romana, nonostante nella vicina Guardia Piemontese era da tempo stanziata una comunità di Valdesi. Attesta, per esmpio, siti Joannes Antonachius che “per fama da 100, 200 anni non è memoria d’homo in contrario che dicta provincia e città di Paula sono state cristiane e campate senza nissuna eresia e canonicamnte”.

Dal punto i vista economico, importante al tempo di san Francesco nell’ economia paolana il porto con i suoi commerci,  l’agricoltura e la pesca considerato che il teste n°42, Antonio Aduardo risulta essere possessore di una tonnara. A metà strada fra i porti di Reggio Calabria e di Napoli aveva certamente un’importanza rilevante e questo, spiegherenne l’inio di un pezzo di artiglieria nel porto paloano avvenuto nel 1517.

Francesco Rizza

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