“Il Convitto” da “Storie d’altri tempi – Racconti Meridiani” di Luigi Capozza.

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La vecchia Millecento avanzava inesorabilmente. Ad Aldo non dispiaceva, proprio non dispiaceva quel viaggio che l’avrebbe portato lontano dalla famiglia. Il rammarico e il dolore erano solo per la lontananza dalla madre e dalla presenza invisibile del padre nella casa avita.

Il fratello grande, che aveva preso le redini della famiglia paterna, lo aveva definitivamente disorientato. Era un uomo pieno fino al midollo di doveri e princìpi, che giudicava da assolvere senza se e senza ma e assolutamente irrinunciabili. Ma non aveva mai spiegato come e perché, li enunciava nelle occasioni rituali e basta. Come se ognuno potesse e dovesse capire in automatico. Ad imitazione di lui o di chissà chi. Di questo probabilmente era convinto.

Grande professionista, per carità, non c’è che dire, ma con una vita interiore tutta sua e totalmente chiuso al dialogo. Anche se, dopo la morte del padre, non faceva mancare niente sia alla sua famiglia sia ai fratelli e alla madre. Insomma, una persona stimatissima e ammirata da tutti. Una persona rara, si diceva tra la gente, nel panorama umano. Ma Aldo non capiva proprio quel suo silenzio caparbio fatto di rimproveri, di doveri e principi irrivelati e incomprensibili.

Aveva le sue ragioni ad essere confuso. Dopo la morte del padre non ci aveva capito davvero granché di se stesso e della vita. Non ci capiva davvero niente di quegli affetti fatti di gerarchie familiari non comunicanti tra loro, di sacrifici, di “memorie familiari vincolanti e preziose”, ma a lui sconosciute se non come moto istintivo d’affetto verso la madre, la memoria del padre, la casa. Sentiva semmai il desiderio di essere voluto bene, rassicurato e incoraggiato e che certe cose magari, quando lo rimproverava, gli venissero spiegate. Ma niente. Solo la madre aveva per lui parole buone, cercava di stargli vicino, di accudirlo in un qualche modo e alle sue sporadiche e casuali domande gli raccontava qualche episodio della vita familiare del passato. Anch’essa con mestizia e rimpianto.

Non è che Aldo fosse quello che oggi vien detto uno stinco di santo; all’epoca era maestra la strada e se ne imparavano di tutti i colori, ma certamente non avrebbe guastato un po’ più di affetto da parte dei fratelli. Perciò quando in famiglia si venne a sapere della bocciatura, cogliendo la palla al balzo della riprovazione unanime, propose di essere mandato in convitto, interpretando il ruolo di colui che era tutto contrito e umiliato, cioè il minimo che ci si aspettasse da lui. In realtà non vedeva l’ora di filarsela da quel clima severo, duro. Il problema era appunto la madre. Gli costò qualche notte insonne e di pianto il pensiero di doversene allontanare.

Dopo qualche giorno di conciliaboli con la madre, ma soprattutto con i fratelli e le sorelle più grandi, Amerigo gli comunicò la decisione che “Sì, meriti proprio di essere chiuso in convitto”. Per Aldo la bocciatura restava totalmente incomprensibile, dato che non aveva raggiunto la sufficienza piena in non più di due materie. Ma al tempo, i figli di famiglie benestanti, se i professori non potevano evitare di riconoscere a qualcuno di loro valutazioni quantomeno di “buono”, venivano rimandati a settembre per far soldi con le preparazioni estive scambiandosi gli studenti l’un l’altro: “Io consiglio ai genitori di affidare i miei rimandati a te, tanto degno e professionalmente affidabile, e tu consigli di affidarli a me, tanto degno e professionalmente affidabile”.

Questo era, più che l’accordo, il vero e proprio contratto, come dire, notarile tra i docenti. Ma ogni tanto agli esami di riparazione qualcuno, come era successo a Franco, veniva pure bocciato per lasciarlo nella classe di provenienza se lì il numero di alunni lì risultava inferiore a quanto previsto dai regolamenti. Ma il fratello, ai suoi sofferti tentativi, appena farfugliati, di spiegare, di farsi capire ad ogni rampogna e digrignar di denti durante l’anno scolastico, di spiegare le mire dei professori come era opinione e voce diffusa, Adelmo rincarava rimproveri e minacce e l’accusava di ledere con infami bugie, per giustificare le sue colpe e inadempienze, la reputazione degli insegnanti, tutti galantuomini e signore perbene. “E io li conosco e con tanti sono pure amico, compreso il bravissimo preside”, rimarcava.

Ma insomma, come deciso, qualche giorno prima dell’inizio del nuovo anno scolastico, partirono per Caraffa, la cittadina dove era ubicato il convitto. Durante il viaggio, Adelmo se ne stava seduto alla guida dell’automobile con le mascelle serrate in una specie di smorfia, silenzioso e con la testa incassata più del solito nelle spalle incurvate. Di tanto in tanto accendeva e fumava a grandi boccate una esportazione col filtro.

Ad Aldo, in quella situazione che lo metteva a disagio, non sarebbe dispiaciuto scambiare qualche parola, magari di circostanza. Ma le parole che, sì, gli furono rivolte subito dopo quel pensiero gli andarono di traverso. Adelmo le pronunciò all’improvviso, quasi come una liberazione. “Sei proprio un piccolo delinquente. Ma che vuoi che faccia, sei pur sempre mio fratello. Spero solo che il convitto ti serva”. E si zittì, serrando sempre le mascelle e incassando la testa ancora di più nelle spalle.

“Chissà cosa vuole dire. Possibile che gli scarsi rendimenti scolastici, e dovuti più a disavventure, chiamiamole così, e a cattiverie dei docenti che ad altro, potessero significare essere un delinquente? Forse il rubacchiare qualche spicciolo?”.Si chiedeva fra sé e sé. Poi, come in un lampo, si ricordò di quella volta che Antonio l’aveva sorpreso una domenica pomeriggio a fare un paio di carezze sensuali alla figlia di amici anch’essa ospite a pranzo. Adelmo s’era messo le mani nei capelli sconvolto e l’aveva subito riaccompagnato alla pensione mollandogli prima un calcio nel sedere e farfugliandogli contro per strada pesanti e a lui incomprensibili epiteti di riprovazione.

“Forse questosi dissesignifica essere un delinquente”. Ma l’avere, chissà, capito non lo tranquillizzava; anzi. “Che c’entrava la delinquenza infatti con qualche istintiva e casuale carezza? O c’entrava tutto, lo studio, gli spiccioli, le carezze? Mah!”. Davvero non ci capiva niente. “Se era per gli spiccioli – continuava a rimuginare – anche i fratelli e le sorelle più grandi confidavano che ogni tanto li avevano involati pure loro da qualche tasca adulta, ma non per questo erano passati per delinquenti quando erano stati inevitabilmente scoperti.

Se era per lo studio, non ero il primo ragazzo a passarmela maluccio. E il tutto – si diceva ripensando soprattutto alle insegnanti d’Italiano e di Matematica – non proprio per colpa mia. Doveva quindi essere per le carezze o per quella mia adolescenza di strada e apparentemente senza regole. Ma in che senso ero un delinquente? Adelmo e gli altri fratelli non avevano mai accarezzato nessuno magari facendo finta di giocare al dottore, come tanti, come tutti? Non avevano mai disobbedito, avevano capito tutto e subito di come ci si dovesse comportare nella vita? Insomma, Adelmo non avrebbe potuto spiegarsi, spiegare, invece di condannare serrando i denti e facendo l’aria sconsolata?.

Così rimuginava. Ma la faccenda gli sembrava irrisolvibile. E però ormai era fatta e non vedeva l’ora di arrivare al convitto. Poco più di un’ora di viaggio e arrivarono. Aldo, durante il viaggio, non interessò minimamente ai luoghi che l’automobile attraversava. Dopo aver superato però il bivio del paese di Fortino, non poté fare a meno di notare, alla sua sinistra, una sorta di baluardo su un’alta e solitaria collina, il profilo di un possente palazzo che si lasciava ammirare già nei lati visibili in tutta la sua orgogliosa ed eccezionale struttura. Una vista che gli mise addosso una specie di frenesia, un’ansia imprevista e inesplorata. Incantato, non riusciva più a pensare a se stesso e alle sue malinconie.

Alle prime curve della risalita che portava al centro di Caraffa, un antico fontanile immergeva in un senso ininterrotto del tempo. Oltrepassata una chiesetta, che d’acchito appariva un sacello, tutto ciò che lo sguardo riusciva a cogliere d’intorno sembrava convogliare verso l’unico punto, quello che si rivelò la magnifica Piazza, che dal grandioso palazzo, e circondata da case eleganti e signorili, si arrestava alla lineare e solenne facciata di una chiesa.

Il palazzo, che era stato adattato a convitto, visto da vicino confermava la mole maestosa, con muri che davano un senso di protezione. “Di difesa da chissà che e da chi” – si chiedeva Aldo. Quando oltrepassò il largo portone che immetteva all’interno, l’atmosfera del tardo tramonto cominciò a farsi misteriosa e un po’ inquietante.

Adelmo, consegnandolo nelle mani dell’inserviente che stava fuori dall’entrata come un guardiano, non era voluto entrare. Conosceva il preside e un collega dai quali prima lo aveva portato per confabulare con essi, per fare, ovviamente, le consegne di sorveglianza di quel fratello che riteneva un piccolo delinquente. Non si farà rivedere mai nei tre anni di liceo.

Per non più di cinque sei volte nei tre anni, era andato a prenderlo il sabato pomeriggio, per trascorrerei il fine settimana con lui, un altro fratello che abitava a Grotte, un paese vicino a Caraffa. E lo riaccompagnava al convitto la domenica nel tardo pomeriggio. “Mah!”. Si era detto Aldo al commiato di Adelmo. E nel mentre rimuginava quel mah, l’inserviente aveva deposto i bagagli ai piedi di un antico pozzo al lato sinistro del cortile interno raccomandandogli di aspettare lì perché a breve sarebbero venute le guardarobiere per sistemare la sua biancheria e le sue cose e poi l’avrebbe convocato il rettore.

Gli sembravano essere venute meno all’improvviso le forze, si sentiva disorientato. Si appoggiò al parapetto del pozzo e guardò intorno. Le stanze che davano sul cortile erano illuminate e si intravedeva qualche ragazzo seduto nei banchi intento a studiare. Si scorgeva un adulto dietro la cattedra che ora sembrava spiegare un qualcosa a qualcuno, ora guardava con sguardo accigliato verso i banchi. Gli spiegarono dopo che quelli erano gli istitutori, gli assistenti del censore, colui che controllava la disciplina nel convitto.

C’era silenzio, ed era quasi sera. Il canto delle ultime rondini s’andava spegnendo. Come per incanto il cortile, forse per il gioco delle luci provenienti dalle stanze, si riempì di ombre e qualcuna scendeva lungo lo scalone che portava alle camerate. Non poté evitare un brivido, che gli attraversò tutto il corpo. “Buonasera!” Si girò trasalendo. Ma era la guardarobiera, una donnina anziana e graziosa dallo sguardo mite e sorridente. “Siete voi Torchia? È questo il vostro bagaglio?” “Sì sono Torchia; sì è questo”. Rispose, rassicurato da quello sguardo.

“Oh, bene, venite con me nel guardaroba perché dovete firmare la nota delle vostre cose, voglio dire delle cose che prendiamo in consegna”. E chiedendo il suo aiuto cominciò a portare i bagagli dentro l’atrio del guardaroba che fungeva da ufficio accettazioni. Assolta l’incombenza, la signora Teresina e la signora Pina, l’altra guardarobiera, gli raccomandarono all’unisono di entrare dal rettore, alla stanza accanto. Il rettore appariva un tipo burbero e aveva le sopracciglia folte alla Mangiafuoco. Era assalito da un tic curioso e irrefrenabile, prima di parlare emetteva una sorta di brontolio e si batteva la fronte con gli occhiali.

Dopo le raccomandazioni di rito, l’elenco dei valori e dei principi da rispettare, la spiegazione di cosa fosse la vita in convitto, la vita cioè di una comunità come in caserma, fatta in buona sostanza di disciplina e di rispetto rigoroso delle regole, affacciandosi dalla porta dell’ufficio, chiamò quasi urlando un inserviente, questa volta un adulto sottile come un chiodo ma dall’aria gentile, e gli ordinò di prendere dal guardaroba lenzuola, pigiama, cuscino e coperte e di accompagnare il nuovo arrivato, il signorino Aldo, alla sua camerata.

Si fa per dire camerata. Sì, attraversarono una camerata davvero grande, con almeno una ventina di letti, ma quella in cui fu accompagnato ne aveva solo quattro ed era contigua ai bagni e al ripostiglio degli accappatoi. Per Aldo andava bene, così qualche volta, pensò contento, di notte “potrò alzarmi per fumare nei bagni una sigaretta”.

Gli andava bene anche perché, come sperimentò all’ora della ritirata, i letti erano occupati da studenti delle medie; sarebbe stato tranquillo quindi e in un certo senso capo camerata. Mentre prendeva nota della situazione nell’attesa che gli venisse preparato il letto, suonò la campanella dell’intervallo. Infatti, un’ora prima della cena, come gli spiegò l’inserviente, c’era l’intervallo dopo lo studio. Scese in cortile insieme all’inserviente, e con sua grande sorpresa trovò lì anche tre o quattro amici, persi ormai di vista. Anch’essi erano stati spediti in convitto.

La salutatio, la riverenza reciproca come si scherzava tra amici, fu di giubilo, di abbracci, di “Come, anche tu qui?”, “E sì, anche io, mica solo voi siete speciali”; “Ma come mai?”, “Da quanto tempo non ci vedevamo!”. L’ora d’intervallo passò così tra “Raccontami” e “Raccontami tu, dai!”. La cena si rivelò abbastanza squallida: un brodino fatto di acqua e strutto con dentro qualche accenno di pasta e pezzetti di pomodoro, che dopo un minuto che era stato servito già si aggrumava; due fette di pressatella di pessima qualità per secondo con contorno di insalata verde scondita e acetata; una mela per frutta. Da bere, acqua di rubinetto dallo strano sapore. Gli amici lo informarono che chi avesse avuto voglia di un po’ d’acqua buona poteva comprare acqua minerale dalle guardarobiere.

Siccome lo avevano messo a sedere insieme ad altri due ad un piccolo tavolo vicino ad una finestrella, imparò ben presto a buttare di fuori l’implacabile serale pressatella e spesso il formaggio simil olandese, tanto poi, durante le prime ore della notte, quando tutto era calmo e anche gli istitutori se n’erano andati a dormire, c’era sempre qualcuno degli amici che rifocillava con le leccornie portate dai genitori in visita e nascoste nei comodini, dei quali erano state consegnate loro le chiavi, essendo concessi come mobili personali da chiudere per evitare le ruberie da parte di convittori non proprio onesti.

Il pranzo veniva servito anch’esso a base di sugna, pasta o riso al sugo che fosse, e qualche pezzetto di carne di qualche irriconoscibili animale e rigorosamente di secondo o terzo taglio. Raramente, per i convittori una vera manna, venivano serviti carne o tonno in scatola. La colazione del mattino, per chi non s’era provvisto da sé, tramite i parenti, di latte e biscotti, marmellata e fette biscottate, tenuti sotto chiave in dispensa dal censore, si esauriva in una tazza d’acqua tiepida con dentro sciolto un accenno di orzo e fetta di pane. E tuttavia in breve volgere di tempo finì col non fare più caso al trattamento alimentare.

Tanto più che, durante il breve intervallo pomeridiano di mezz’ora, concesso per espletare un qualche bisogno corporale, Aldo con i suoi tre quattro amici più stretti si ritrovava in un bagno esterno al cortile e assaporavano le leccornie, soppressata e salsiccia e qualche pezzo di torta salata, portate dai loro genitori. Non mancava a volte anche la piccola bottiglia di vino. Si scopriva gioiosamente, insomma, lo spirito cameratesco. Finalmente in quelle loro vite sbandate entravano la serenità e la spensieratezza giovanili, ritmi e scansioni certi delle giornate. Nascevano amicizie autentiche che avrebbero resistito per sempre allo scorrere del tempo. Dopo cena, chi aveva da approfondire i compiti assegnati poteva restare nello studio due ore, esibendo il permesso firmato dai professori che lo dovevano interrogare; gli altri potevano ritrovarsi per non più di un’ora sulle terrazze del palazzo o nei due cortili disponibili. A metà anno, fu acquistato anche un televisore, che venne messo in funzione nel refettorio per chi volesse guardare le trasmissioni fino alle dieci di sera.

Aldo andava di solito con gli amici sulla terrazza che affacciava sulla piazza principale. Era al buio e favoriva un’aura di complicità tra di loro. Del resto, ogni gruppo che faceva la scelta di una delle terrazze badava a non infastidire l’altro. Si riusciva così a confabulare, a parlare delle ragazze e della mattinata scolastica con gli inevitabili sfottò e le imitazioni dei professori o del preside, o dei responsabili del convitto. A volte si cantavano canti militareschi, quando non le “Osterie”, la più gettonata delle quali era la numero uno, quella sui casini, i preti e le donnette. Si riusciva anche a fumare collettivamente una sigaretta offerta da chi ne possedeva – gli inservienti si prestavano volentieri a comprarne 4 o 5 al convittore danaroso. Sigaretta che finiva rigorosamente infilzata, quando si era quasi del tutto consumata, con uno spillino per non bruciarsi le dita e non perdere così neanche una tirata.

Sulla piazza, quello che attirava l’attenzione dei convittori erano le ragazze, che, nonostante l’ora tarda, vi passeggiavano con un fare adulto e pacato, ai loro occhi intrigante e ricco di eccitanti sensazioni. Gli adulti sedevano ai tavoli esterni dei bar, chiacchierando amichevolmente e di tanto in tanto si alzavano a piccoli gruppi per passeggiare. Era illuminata, la piazza, con lampade fioche che riempivano l’atmosfera di un che di fiabesco e di antico; sembrava che una nebbia invisibile coprisse il tutto con la sua magia e il suo silenzio. La vita nel convitto era diversa. Sembrava avere una dimensione propria, estranea all’ambiente esterno. Con regole, ritmi e consuetudini tutte sue.

I convittori più grandi di solito, dopo cena, venivano lasciati in pace dal censore e dagli istitutori. Alcuni per questo, i più smaliziati e autonomi, andavano sulla terrazza opposta alla piazza, che, ricevendo meno riverberi luminosi, stava al buio quasi totale e consentiva di scherzare e raccontarsi, ma soprattutto di fumare più liberamente, quasi come persone adulte.

La prima notte in convitto però per Aldo le ore non trascorsero serene e tranquille. Nonostante l’ora tarda non riusciva a prendere ancora sonno. Così si era alzato per vedere se fumando una sigaretta si sarebbe calmato. Silenziosamente e con solo le calze ai piedi per non far rumore e non svegliare nessuno si diresse verso i bagni. Ma non ci fu niente da fare, ritornato a letto restò in agitato dormiveglia fino alle prime luci del giorno. Gli mancava la madre, la sua presenza silenziosa ma rassicurante, e non riuscì per tanti giorni a mettere ordine e a trovare un filo logico nella congerie di fatti e situazioni che lo avevano portato lì, anche se aveva chiesto lui di esserci mandato. Una condizione d’animo sulla quale infine l’esistenza collegiale ordinata e amicale prese il sopravvento.

Restò in convitto fino al conseguimento della maturità. “I tre anni più bella della mia vita”, si ripeteva ogni volta che vi ritornava con la memoria. In convitto aveva trovato amicizie sincere e profonde, serenità e spensieratezza. L’ambiente con la sua disciplina e le sue regole aveva favorito una vita ordinata ma serena e quindi amicizie sincere e non caotiche ed occasionali come avveniva spesso nel mondo esterno.

La giornata, per almeno nove ore, veniva scandita tra lezioni mattutine e studio pomeridiano. Quella vita aveva avuto la capacità se non altro di fargli apprendere che esisteva una dimensione fino ad allora a lui sconosciuta. I professori ci tenevano sì all’impegno e al rispetto, tuttavia sapevano confrontarsi con gli alunni, a volte pure scherzare con loro, manifestavano rispetto e attenzione per le loro domande, i loro interventi e cercavano di offrire una soluzione culturale ed esistenziale persino attraverso fatterelli di vita quotidiana esemplari, quasi degli apologhi. Le interrogazioni divenivano piuttosto colloqui e i docenti cercavano di instradare l’interrogato verso le risposte corrette.

Il preside richiamava severamente alla disciplina, al rispetto, allo studio, ma contemporaneamente disegnava con esempi e ragionamenti un’etica buona dell’esistenza e richiamava ad un bagaglio di valori che aprivano tutti alla speranza di poterli e saperli testimoniare. Non rifiutava il dialogo con gli studenti, anzi spesso lo provocava.

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