Fra storia e narrativa: “La Figlia della Frascara”.

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Quando nel carcere femminile di Catanzaro videro arrivare quel gruppo di donne provenienti dal  Marchesato crotonese, la notizia di quello che era accaduto a Petilia Policastro era già di dominio pubblico nella principale delle città calabresi e, finance, nel suo carcere. “Ecco le brigantesse della Sila!”. “Io nella mia cella a queste non ce ne voglio!”.”Proprio qua dovevano portarle? Queste sono più maschie dei loro mariti e dei loro fratelli”. In verità, come nel resto della Calabria, i mariti ed i fratelli di quelle e di altre donne non si vedevano da tempo. Tutti mandati a difendere il  fronte di una Nazione nata da pochi decennia. A morire in una guerra di cui a loro   non importava nulla.

“Trento, Trieste che città sono? Molto più lontane di Firenze ed anche di Milano?”. “Allora sono città africane?”. “Certo che no”: aveva risposto ad un gruppo di donne che volevano capire,  il farmacista sorridendo di tanta ignoranza geografica. “Anche se quando parlano la loro lingua non è facile capirli, i Trentini non sono Africani ma Italiani come noi, molti di loro emigrano in America proprio come i vostri figli ed i vostri mariti!”. Ad Anna, una contadina bianca e rossa, che ogni mattina scendeva da Pagliarelle  con la sua “sporta” di ortaggi caricata su un asino talmente smunto che non si capiva come si reggesse in piedi, nemmeno del sarcasmo del farmacista importava più nulla. A lei interessava solo che Francizzu suo marito  tornasse velocemente dal fronte o, in alternativa,  che quei “cornuti” del Municipio si sbrigassero a consegliarle quei quattro soldi  destinati mensilmente dal Governo alle famiglie dei soldati. Ma al Comune dei poveracci ino importav nulla e neppure controllavano i prezzi dei generi alimentari che, anche negli ultimo mesi, erano aumentati spropositatamente. 

Con queste speranze nel cuore, appena avrebbe finito di vendere quei pochi frutti che le  erano rimasti, sarebbe scesa alla chiesa di San Francesco da Paola per far celebrare una Messa.”San Francesco nostro è un Santo calabrese – diceva alle amiche per convincere sè stessa – e quando nelle case calabresi non ci sono gli uomini lo capisce bene come vanno le cose e come servono i soldi!”

“Ara casa senza pane c’è nu trigulu abbattutu   a mugliera è na puttana,  ‘u maritu è nu cornutu”. Quanta disarmante verità in quel proverbio!  A quelle donne, chi poteva capirle? Quanto erano arrivate a Catanzaro, per quella pancia da nove mesi e per quei piedi gonfi, a Teresa dovettero aiutarla a scendere dal camion. La sua era la terza gravidanza ed i Carabinieri non avevano avuto pietà né delle sue condizioni e neppure dei due figlioletti che, attaccati alle sua gonna sempre più corta, piangevano come due agnelli che stavano andando al macello. Gli stessi Carabinieri erano arrivati alle case delle donne la mattina presto e, in fila indiana, le aveno portate in Caserma.

Ogni tanto, nello stanzone dove le avevano messe, si affacciava un Carabiniere e “vi arrestiamo tutte!  – dicevano – Il Comune volevate bruciare? Chi vi ha ammaestrate?” Singhiozzi, qualche rimbotto, tanto silenzio ed altrettanta paura le uniche reazioni delle donne. “Ma perché vi accanite con noi? Non ne avete madri e sorelle?”. “Si ma le nostre madri e sorelle non incendiano il Municipio”. “Ed allora, perché al Comune non gli dite di fare le cose giuste?”.  Da dove le cacciava tutte quelle parole Anna? Ad un certo punto, le altre la invitarono a tacere. “Se non ci hanno ancora portate in carcere, forse vogliono solo metterci paura e poi ci libereranno”.

Invece non era andata così. Verso le 16 fu chiarissimo che la partenza erao ormai imminente. “Lo sapevo che finiva così! Mai a starti quieta!” le disse la sorella quando arrivò in Caserma a prendersi i due bambini. “Ma che ne sai tu, che tuo marito non è buono nè per il re e  nè per la regina e sono cinque anni che lo tieni in casa e devi provvedere tu a lui!”. Proprio Anna, qualche giorno prima, avrebbe volute parlare col commissario che guidava il Comune. “Qua, ad eccezione dell’ anziano impiegato, un “ominone”con i figli già grandi, non lavora nessuno! I nostri soldi dove sono? Di mio marito sono tre mesi che non ho notizie, con ste creature come devo fare?”. “Se tuo marito era partito prima, questa pancia non ce l’avevi!” aveva risposto il commissario e ad Anna i due occhi si accesero come braci.

 “Domani – aveva detto alle altre  – le nostre frasche non le portiamo ai forni per fare il pane. Io soldi per comprare il pane non ne ho più e se non mangio io, non mangia nessuno!”.”E ti vuoi mangiare le frasche?” le avevano domandato.  “Con le frasche – aveva risposto –  diamo fuoco al Comune. Anche tuo figlio è al fronte. A te i tuoi  soldi te li hanno dati?”. “Sindaci o commissari della nostra fame e dei nostri figli se ne importano nulla –aveva detto un’altra delle frascare – guardate questo monumento. Ad innalzarlo per il sindaco Luigi Carvelli che ha fatto l’acquedotto, e quando è morto non si è impegnato il Comune,  ma privati cittadini, tassandosi!”. A quelle parole, tutte avevano taciuto ed erano rimaste d’accordo.

  Era quasi mezzogiorno e sui banchi in cemento della centrale piazza era quasi finite tutta la roba. Per l’indomani mattina era tutto organizzato. Verso le 11,30 dell’indomani una delegazione delle donne chiese di essere ricevuta in Municipio, l’anziano impiegato l’unico di cui si sarebbero potute fidare, quel giorno non era presente ed il commissario si era rifiutato di riceverle. Velocemente, le frasche erano state ammassate dinnanzi all’ ingresso dell’ antico palazzo ospitante oltre agli uffici anche l’archivio cittadino, molti dei documenti, forse fra questi ce n’erano di compromettenti,  avevano preso fuoco: ecco perché a Catanzaro ci misero circa un anno per rendersi conto che la “rivolta delle Frascare” era stata una rivolta spontanea nata senza secondi fini, ma solo per la rabbia ed alla prima occasione, pure se dopo un anno, era arrivato l’indulto.

Se fosse nata in Emilia al posto che in Calabria Sabella, la figlia di Anna, senza dubbio, avrebbe partecipato alla Resistenza. Lo aveva lungamente pensato, ma il suo vivere in Calabria   aveva impostato in altro modo la  sua storia. Bassina ma ben fatta, con degli occhi neri che t’interrogavano col solo guardarti, non era fatta né per il matrimonio e né solo per le faccende domestiche.

Cucinare, rammentare, prendersi cura delle cose di casa e dei fratelli erano cose che faceva anche volentieri, ma lo sentiva bene che era nata per altro. Sedersi al telaio no! Quella era una cosa che mai l’avrebbe fatta, per un fastidio che sentiva solo a guardarlo: lei che era nata in cella e vi aveva trascorso i primi mesi della vita era fatta per la libertà e non per quello strano strumento di legno, per lavorare al quale occorreva ingabbiarvisi dentro. 

Gli uomini? Non le interessavano davvero! in fondo erano tutti uguali come i suoi due fratelli: veloce a perdere la testa per uno sguardo femminile. Senza avere ancora una casa loro, appena possibile si erano sposati portandosi a casa le due mogli, sottraendo a lei ed alla madre altri piccolo spazi  della già modesta casa. Da allora non c’era anno in cui non nascesse un bambino: per Sabella un altro nipote a cui badare, lei che non aveva volute marito e figli! Il padre? Non l’aveva neppure conosciuto. Tornato dal fronte, per la vergogna della moglie carcerata, aveva riparato in America e non era mai rientrato.

 “Teresa vede gli Spiriti!” dicevano in paese di sua madre ed una volta la portarono, inutilmente,  al convento francescano di Mesoraca: un paesone lì vicino dove dicevano c’erano degli ottimi esorcisti che, però, non erano riusciti a liberarla dal suo male.  Sabella a quella storia degli Spiriti non c’aveva mai creduto.

  “Dicono – si diceva e spiegava alle amiche – che vede gli spiriti per non dire che è pazza; solamente perché non le hanno mai perdonato che pur essendo donna si  era messa a capo di una rivoluzione ed aveva incendiato il Municipio” . Di una cosa, però, Sabella  era sicura : sua madre non solo non era pazza, ma col ragionamento  era sempre un paio di metri avanti agli altri, maschi o femmine che fossero. Anche ad un’altra donna del Paese,  che viveva nelle campagne, capitava di “vedere le cose“, ma quella non aveva bruciato il Comune ed  invece che pazza, la chiamavano “Santa”.  Ogni giorno arrivavano decine di persone per parlare con lei, lasciandole doni in natura e monete. Quando a Anna arrivavano le sue crisi, se non fosse stato per la figlia, dalla disperazione si sarebbe ammazzata. Sabella, invece, si sedeva al suo fianco, prendeva nella propria la sua mano e, silenziosamente, aspettava che tutto passasse. Mai come in quei momenti i loro sguardi si parlavano.

“Perchè non ti sposi?” le chiese un pomeriggio la madre. “A te il marito a che ti è servito?” aveva risposto  Sabella  e mai più  il discorso era stato preso. In verità, per quei tempi, un marito non l’avrebbe proprio sopportata: era  una donna troppo indipendente e rivoluzionaria per il matrimonio.  Ad Antonio, il fratello prediletto, aveva quasi imposto di insegnarle a suonare la chitarra e se fosse stato possibile, finito di lavorare nei campi o terminate  le cose di casa, sarebbe andata  a fare qualche serenata o nelle  “putighe du vinu” a giocare a carte ed a sentire le novità. Intanto era arrivata la seconda guerra mondiale e, come la prima, risvuotò  le strade di  uomini, le campagne  di contadini e le bettole  di giocatori di carte.

 Con la nuova guerra, pure  in Calabria le notizie arrivavano numerose quasi quanti gli  sfollati che nella cittadina dell’ alto Marchesato crotonese non temevano l’arrivo di bombe. Quando la radio collocata in piazza aveva portato la notizia dell’armistizio a Sabella ed a pochi altri apparve chiarissimo che le armi, ancora,  non si potevano conservare. Era solamente cambiato il nemico e la lotta più dura, probabilmente, incominciava proprio allora chè il nemico non era un popolo straniero ma quegli Italiani dalle nere camicie  che, con la scusa del duce, avevano spadroneggiato in quasi tutti i paesi.

Generazione dopo generazione, in fondo cambiavano solo le facce ed i nomi, le famiglie  dei signori e dei poveracci  erano sempre le stesse. Sabella  avrebbe voluto parlare di tutte quelle cose  con la madre che però era morta da qualche anno. A confrontarsi con i fratelli e le cognate aveva perso l’abitudine e la sera,  quando tornava da Messa,  si fermava dalla sezione comunista per ascolare ciò che si diceva. “Sabella, la figlia della frascara, cerca marito e per questo va’ alle riunioni dei maschi”. Da un pettegolezzo messo in giro ad arte,  era nata una sceneggiata con le cognate ed i fratelli. Fu proprio per questo che, recintatasi nella proprietà familiare  un pezzo di orto, Sabella  per la propria libertà, aveva lasciato quella casa dove era nata.

“Qua il problema sono le donne che cercano il marito – aveva detto una sera commentando le ultime notizie con alcune giovani che, spesso,  andavano a trovarla  – ma a Caulonia, vicino a Locri non in Micheria, hanno fondato una Repubblica. E’ durata manco dieci giorni, ma almeno  ci hanno provato!”. “E perché non ce ne andiamo a Caulonia o in Micheria?” aveva chiesto, entusiasta, una delle ragazze. “Ma dove devi andare, Mariuzza mia, che poi dicono che parli con gli spiriti o cerchi marito? Ognuno la rivoluzione deve farla dove vive ed anche le pietre lo conoscono. Così se qualcuno decide di denigrarlo, ci sarà sempre qualcun altro a rispondere in sua difesa!”. A questo punto Lucia, per evitare che il discorso diventasse troppo serio, aveva fatto un po’ di spazio sul tavolo e, dal bianco tovagliolo che aveva portato da casa, tolse una “pitta” ripiena  con delle papate e dei pepperoni fritti.  Sabella era  andata a prendere  una caraffa di vino e, dopo il primo giro, aveva abbracciato la chitarra.

Pasqua del 1947. Dal tempo dei Borboni a quelli dei Savoia e poi a quelli della Repubblica cosa era cambiato? Poco o nienete visto che come altrove  anche a Petilia Policastro  qualcuno  continuava a speculare sul prezzo dei generi alimentari. I  soldati  che non erano morti sul fronte erano tornati e non avevano lavoro, anche i cantieri della So.Fo.Me. erano stati chiusi e la fame faceva da padrone. Questa volta la rivolta non era nata fra le donne, ma un corteo rumoroso era sceso da Pagliarelle. Qualcuno aveva provato a tagliare i fili del telefono per non consentire ai Carabinieri di chiamare rinforzi ma, sbagliandosi, aveva tagliato quelli della corrente ed il Paese, nel pieno della sommossa, era rimasto pure senza luce.

  Ad un certo punto, vicino al ponte sul Cropa si sentì un boato, qualcuno parlò di una bomba ed alcuni degli uomini che erano in corteo   furono portati in caserma. Ad aspettare i Pagliarellari altri Petilini che  si erano radunati in piazza Filottete e molti di questi, quando si seppe degli arresti,  si diressero verso la caserma.  D’un tratto i proiettili dei Carabinieri schizzarono all’impazzata, anche in piazza, alcuni  bossoli andarono ad infilzarsi nelle mura delle case e nel “Cancello dei Pesci” una struttura in ferro in cui ogni mattina il pescato dello Jonio vicino era venduto.

 “Azzu comu vruscia!”. Franciscuzzu, il povero spazzino zoppo ed un un po’ tonto, ebbe appena il tempo di portarsi una mano sulla spalla per capire cosa gli fosse successo prima di cadere nel suo sangue. Tutti coloro che erano ancora nelle strade si dispersero.  A Sabella, che nessuno aveva cercato,  la trovarono l’indomani  in un portoncino disabitato nei pressi della sparatoria con gli occhi ancora aperti, seduta con le braccia strette al ventre, insanguinato dalle pallottole.  “Forse è meglio così.” disse qualcuno “una donna con una bellezza come la sua non poteva invecchiare!”. “A quest’ora è sua madre a stringere nelle proprie le sue mano, per dirle di non avere!” aggiunse qualcun altro e la seppellirono velocemente, senza molte parole, come troppo spesso accade agli eroi silenziosi cui non si consente neppure il ricordo della storia.

Francesco Rizza

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