Da “Storie d’altri tempi: Raccondi meridiani” di Luigi Capozza: “La fine dell’ estate”.

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Era aprile inoltrato e stava per concludersi l’anno scolastico, alla fine del quale si sarebbero dovuti affrontare gli esami di maturità. Nel paese non esistevano istituti superiori e le famiglie facoltose preferivano collocare i figli in qualche rinomato convitto piuttosto che farli viaggiare con la corriera dal paese alla città dove erano state  istituite le scuole superiori. La corriera infatti partiva verso le sei di mattina perché, dovendosi fermare ad ogni paese che attraversava per prendere passeggeri, impiegava almeno due ore per giungere a destinazione e altrettante per ritornare al paese non prima delle 15,30. Orari che turbavano le abitudini e i ritmi delle famiglie. A far ospitare i figli a pensione presso qualche famiglia cittadina col pericolo di una loro incontrollabile e quindi eccessiva libertà, non ci pensavano proprio.

Gli anni trascorsi in convitto in un paese della provincia di Parrasio avevano fatto scoprire a Tommaso il lato buono della vita. Ma ormai il tempo trascorreva per lui e gli altri compagni in un clima carico di ansia, sia per gli esami di maturità da sostenere, sia per la consapevolezza che una fase importante della loro vita stava per chiudersi, sia per la problematicità delle scelte che li attendevano.

Ai primi di giugno, i convittori per ripassare e approfondire gli argomenti delle varie materie in un clima più raccolto e familiare avevamo ottenuto il permesso di tornare a casa.

Quel sabato, insieme ad un cugino con la macchina di famiglia a disposizione, gli era stato concesso di partecipare a Gallucci alla consueta festa danzante estiva del sabato sera.   Era contento, avrebbe potuto rivedere i vecchi amici e magari, chissà, rincontrare Pina, l’antica fiamma della terza media.

Incontro che però non avvenne.

Verso l’alba la festa volgeva al termine. La pista esterna, sovrastata da due spesse tettoie laterali tenute su da eleganti colonnati, lasciava appena filtrare la luce del nuovo giorno, che, mescolandosi ai fari ancora accesi del locale, riverberava un chiarore spettrale, carico di stanchezza.

Erano strane quelle feste. Inizialmente cariche di un’eccitazione elettrica e colma di aspettative, si chiudevano immancabilmente su visi estenuati e un po’ delusi. Le ragazze non avevano il permesso di recarvisi da sole e così venivano accompagnate all’entrata dal padre o dal fratello maggiore, o da qualche parente stretto, col patto di ritornare a riprenderle ad un orario prestabilito, che non andava mai oltre l’una di notte. La convinzione era che una volta entrate nel locale sarebbe intervenuto a badare ai loro comportamenti il forte controllo sociale con le immancabili spiate del buon amico di famiglia, causa di grane e conseguenti divieti per quelle che non si fossero comportate “come si doveva”.

E invece …

Non è che si arrivasse a fare chissà cosa, ma mettendo in atto complicate strategie per appartarsi se ne combinavano ugualmente tante, abbracci baci carezze sensuali, alla faccia di tutti i controlli. E tuttavia l’una di notte diveniva l’inesorabile spartiacque dei due momenti della festa. Dopo quell’ora, nell’attesa dell’alba, quando il locale avrebbe chiuso, c’era tra i ragazzi il raccontarsi, via via sempre più fiacco e ripetitivo, l’avventura, se c’era stata, e il bere una birra alla salute reciproca e della prossima occasione.

La sera di quel sabato, ad ogni modo, era un momento speciale. Tanti di loro, come Tommaso, da lì a qualche giorno avrebbero sostenuto l’esame di maturità e questo all’epoca significava mettere il primo piede nell’età adulta con tutte le incognite e le ansie del caso. Ognuno avrebbe dovuto imboccare la propria strada, sradicandosi dalle antiche abitudini, dai luoghi d’origine e dai compagni di scuola.  Era un momento che faceva pesare tutta la sua incertezza e tutta la sua nostalgia. Eppure tutti desideravano diventare adulti.

Alla chiusura del locale, il gruppo degli amici, Tommaso e il cugino inclusi, pur se riluttanti data l’ora, decise di stare ancora un po’ in compagnia sulla spiaggia poco distante.  Si avviarono così all’uscita e scesero verso il mare ancora infagottati nelle scarpe lucide e nei vestiti rifatti o rivoltati dei fratelli maggiori o degli zii. Ma Giuseppe, mentre camminavamo sulla spiaggia, cominciò a togliersi la giacca e a slacciarsi le scarpe come preso da un’improvvisa smania. Era proprio fuori. Aveva bevuto molto e non si reggeva neanche bene in piedi.

Non so che farmene di voi – cominciò – vi lascio tutti, figli di puttana, me ne vado. Tiè! – E fece una bracciata –. Io me ne vado a lavorare, così vi fotto tutti, porci figli di papà”. Con una bella sbronza, era cominciata la bagarre della diaspora. Tuttavia, la rivelazione di Giuseppe li sorprese. Non era di famiglia propriamente povera.

Già! Ma i miei da dove li prendono i soldi per continuare a farmi studiare lontano da casa e per tanto tempo? A vivere qui, certo, non sono poveri in canna … Ma, appunto, qui. Ma se mi devono mantenere fuori come fanno?” Così rispose alle perplessità degli altri. Tolti tutti i vestiti e rimasto in mutande, mise le mani nell’acqua e prese a spruzzarsi il viso e la testa. “Me  ne  vado  a  Torino,  da   mia  sorella  che  s’è  sposata là. M’ha detto che c’è già un lavoro pronto per me”.

“Mi dispiace andarmene – aggiunse farfugliando, dopo una pausa nella quale s’era messo a piangere –, mi dispiace … Vuol dire che appena faccio i soldi vi inviterò tutti ad una abbuffata di tre giorni”.

“Anch’io dovrò andar via dopo gli esami –  rivelò Roberto con tono pacato e un po’ trasognato –. Mio padre ha trovato un lavoro in Germania e così ci trasferiamo colà tutta la famiglia. Chissà se potrò continuare là gli studi. A me sarebbe piaciuto fare legge”.

 “Io invece ve lo metto a tutti in quel posto – intervenne sardonico Nino –, me ne vado a Roma a fare medicina, così me la spasso almeno per nove dieci anni tra laurea e specializzazione. Tiè!”.

“Dai, andiamo a fare il bagno”, propose Gino.

Solo Giuseppe restò a riva. Gli altri si svestirono  velocemente restando in mutande e ululando come pazzi si tuffarono in  mare, rincorrendosi e strattonandosi allegramente l’uno l’altro. “Facciamo la gara – sfidò qualcuno – a chi arriva prima al Lanternino?”, un grande scoglio chiamato così perché un tempo sosteneva un’alta lampada per avvisare le imbarcazioni della presenza di una scogliera appena sotto la superficie del mare. Fu l’ultima gara. Gli esami si protrarranno fino a tutto luglio e tanti subito dopo dovevano rimettersi a studiare per riparare in qualche materia.

La fine dell’estate, e dell’adolescenza, arrivò presto. Il destino era quello. A tempo debito, tanti giovani del Sud venivano preparati in famiglia alla prospettiva di dover ben presto emigrare. Come i loro nonni e parenti che, tra gli stretti vicoli dei paesi, dietro i vetri delle finestre, avevano atteso in notti insonni, e senza più illusioni, di preparare le valige non appena fosse arrivata l’alba. 

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