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Preciso che, nei precedenti due interventi, mi sono limitato a proporre solo presenze e personalità le più eclatanti per dare una certa sostanza al ragionamento. Desidero ora aggiungere altri pochi esempi, per completare il discorso. Si cita Antonello da Messina. E ci mancherebbe! Ma di Antonello Gagini – e lo stesso “da Messina” fondò la Scuola gaginiana – che ne facciamo? È vero, era originario di Palermo, ma operò con somma arte soprattutto in Calabria e nel suo humus.
Eppure è quasi dimenticato. Quanti infatti, delle nostre stesse parti, sono andati ad ammirare la sua preziosa Pietà a Soverato superiore nella Chiesa Matrice Maria SS. Addolorata, o la sublime Madonna delle Grazie nel Santuario del SS. Ecce Homo di Mesoraca? Come scrive Pasquino Crupi, centinaia di pitture e affreschi, nonché di testi e codici, sono dimenticati e lasciati in rovina, come scomparsi, perché non catalogati (non esiste da noi un museo del genere) né analizzati, comparati per evidenziarne l’originalità e la peculiarità e la perfezione. Finanche Mattia Preti, aggiungo, viene degradato a caravaggesco e forse i canonisti critici-critici non hanno mai visto a Malta, per esempio, l’Annunciazione, un’opera di una bellezza, originalità e potenza che incantano.
Dopo la devastazione conseguente al Risorgimento, del sacco e della speculazione edilizi, che hanno distrutti interi palazzi e quartieri ed eliminata l’identità urbana, facendone una congerie di agglomerati invivibili e inguardabili, di tante città e paesi calabresi, resti architettonici rinascimentali, tuttavia, resistono gloriosi a Belcastro, Aieta, Fiumefreddo, Aiello Calabro, a Reggio, Pizzo e Corigliano, a Santa Severina con l’affresco del S. Gerolamo, i rifacimenti del castello da parte del Carafa e i resti della casa di Marco Antonio Magno, e a Crotone (basta ricordare il castello col suo Bastione del Fosso del 1555 e i tanti palazzi nobiliari). Ma anche in questo caso mancano la catalogazione e l’analisi complete, quasi che nel XV e XVI secolo da noi non sia esistita la storia come movimento autoctono, sia pure collegato ai grandi movimenti artistici e culturali del resto d’Italia e d’Europa. Anzi, che da noi non sia proprio esistita la storia.
Si osanna, a dire il vero in modo un po’ disdicevole, alla scoperta della prospettiva da parte di Filippo Brunelleschi, come se fosse la mosca bianca che abbia avuto il colpo di genio nel deserto dell’ignoranza. E invece, anche in questo caso dobbiamo rifarci ai nostri traduttori e divulgatori Basiliani, ma soprattutto al nostro Mediterraneo meridionale. E alla Scolastica. Sulla base degli studi di Euclide e di Boezio, prima al-Kindi nel IX secolo cominciò a studiare con sistemi moderni l’ottica e quindi la prospettiva, e in seguito Alhazen, ovvero Abu ‘Alì al-Hasan, continuò l’opera tra X e XI secolo, fino ad essere considerato l’inventore dell’ottica moderna. Ambedue gli scienziati danno il via agli studi scolastici sulla perspectiva tra IX e XV secolo. Nel XIV secolo si distingue in questi studi Biagio Pelacani, rettore dell’università di Parma, sulla scorta dello scolastico Roberto Grossatesta (XII sec.) e di altri studiosi.
In questa cornice, comprendiamo meglio allora l’importanza del Mediterraneo meridionale, della scolastica medioevale e dei “traduttori” Basiliani, in modo da comprendere meglio e apprezzare in senso culturale complessivo il “genio” di Brunelleschi, debitore del Mediterraneo, della Calabria e della scolastica, personalità italiana insomma, se così vogliamo dire, e non solo mosca bianca fiorentina.
Tuttavia, ancora oggi gran parte della storia e della storiografia, diciamo così, ufficiale non si stanca di presentare la Calabria (e il Meridione in generale) come terra primordiale e salvata dai Piemontesi.
«La cosa curiosa è che, generalmente, sono proprio uomini provenienti dal Sud, specialmente quelli che si considerano parte attiva delle élite culturali, che si oppongono ad una revisione sistematica della storiografia nazionale; sono gli stessi che cancellano ogni traccia linguistica della propria regione di origine, ne disprezzano gli usi e i costumi, ne infangano la memoria, esaltando nel contempo tutto ciò che è “non meridionale”. Spesso l’ostacolo è solo ideologico. […] I primi storici liberali, servili adulatori del sovrano Vittorio Emanuele II di Savoia, hanno costruito una storiografia risorgimentale distorta, sacrificando la verità sull’altare dell’ideale di unità nazionale; dopo più di centoquarant’anni, incredibilmente, la storia viene insegnata nelle scuole allo stesso modo non tenendo conto di acquisizioni che dovrebbero farla modificare radicalmente: viene ancora detto che l’unità d’Italia ha salvato il Mezzogiorno dalla sua arretratezza economica e culturale.» (Giuseppe Ressa, Il Sud e l’Unità d’Italia).
Vediamo con qualche esempio se tali intellettuali meridionali abbiano o meno ragione, proprio a partire dal XVI secolo e dintorni. «Ancora fra Quattro e Cinquecento, ad esempio, in tutto il Regno ad eccezione del porto di Napoli e di quelli della Costiera Amalfitana e Sorrentina, gli scali naturali di una certa importanza sono costituiti in Puglia da Brindisi, Taranto e Bari e poi da una presenza di scali minori collocati tra Barletta ed Otranto – che sono favoriti solo perché posizionati di fronte a Corfù, integrati nelle rotte commerciali veneziane – ed in Calabria da Crotone, Reggio e Pizzo.
In primo luogo, anche negli anni di maggiore diminuzione del traffico marittimo secentesco, non viene mai meno il cabotaggio, i cui percorsi più battuti sono per un verso la direttrice Napoli-Adriatico e, per altro verso, quella che congiunge alla capitale i porti ionici. Il traffico granario ed il rifornimento d’olio e vino diretto a Napoli ha i propri punti di forza nel litorale tra Manfredonia, Barletta, Trani, Bisceglie, Brindisi ed Otranto e sulla costa ionica con i porti di Taranto, Cassano, Rossano, Corigliano e Crotone, con centinaia di caricatoi intermedi, da cui partono frumento, orzo, avena, legumi per i porti di Napoli, Castellammare, Torre Annunziata. Sono quasi tutti porti, muniti di regio fondaco e di dogana, che ricadono sotto il controllo delle dogane regie, in primo luogo quella di Napoli e di Salerno, ai quali si devono sommare i cosiddetti «scari proibiti» le cui esportazioni creano un fiorente contrabbando.A far privilegiare l’esportazione olearia del Mezzogiorno non è la qualità del prodotto, che continua a risentire di processi di preparazione inadeguati, ma il fatto che i produttori hanno il grande vantaggio di poter contare su un raccolto all’anno in quanto quelli della Puglia e delle Calabrie si alternano, a differenza delle piantagioni del Levante dove questo avviene ogni tre anni.
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