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Si era promesso che non avrebbe più scolpito nulla. Non solo perché le mani, storte dall’ artrosi, iniziavano a fargli male quando doveva stringere gli strumenti del suo lavoro ma, principalmente, perché iniziava ad essere stanco della fama delle sue sculture che non si addicevaalla sua umile vita di frate francescano. Se avesse voluto il successo, non avrebbe lasciato il laboratorio artigianale di Petralia dove i suoi parenti erano valenti scultori ed intagliatori da più generazioni. Invece, una mattina di settembre, riempita una bisaccia dei suoi poveri averi, aveva raggiunto il più vicino convento francescano chiedendo di essere ammesso al noviziato e la sua vita aveva preso un’altra direzione. Eppure quella sera di un freddo gennaio, quando nel chiosco aveva visto il tronco di un castagno che, nel bosco vicino, un tuono aveva ferito sin quasi alla morte e, vedendolo, si era impietosito fino alle lacrime. Avvicinatosi, si era inginocchiato ed aveva iniziato ad accarezzarlo. “Frate fuoco – mormorava al legno ferito – non è stato buono con te! Guarda come ti ha ridotto. Perdonalo ché a te ci penso io”. Chi fra gli altri frati, in quei pochi istanti, ebbe la fortuna di fissare il proprio sguardo nelle sue occhiaie scavate racconta che forse era in quella santa estasi che l’anziano fraticello trovava la sua forza.
Davvero, come egli stesso diceva, quando scolpiva non era solo. Frate Umile, questo il suo nome, era da più giorni ripiombato in quegli incubi che da più anni ne martoriavano lo spirito. Con la mente,infatti, tornava spesso alla sua fanciullezza quando in famiglia già gli avevano preparato un matrimonio. Le sue laboriose giornate passavano serene nel laboratorio paterno dove aveva iniziato ad impratichirsi nella scultura quando la peste sferzò la Sicilia intera. Come un temporale estivo l’epidemia era dapprima arrivata come una pioggerellina leggera. Poi il fragore dei tuoni e la luce dei lampi nel cielo d’un tratto oscurato ed il fragore della pioggia. Per lunghe settimane non si faceva in tempo a seppellire i morti ed i cadaveri si ammassavvano ai crocicchi delle strade con i volti scavati e le occhiaie profonde e vuote.
I cattivi dissero che proprio quelle scene erano state la sua fortuna, perché l’ispirazione per le sue sculture del Cristo sofferente e crocefisso; ma solo Dio sapeva quanto il fraticello avrebbe voluto diberarsi, dopo decenni, di quei truci ricordi. Accortosi si essere osservato. si era alzato di scatto ed aveva raggiunto il coro della chiesa: voleva restare solo. Ne aveva davvero bisogno. “Ave, Signora, santa regina, santa Madre di Dio, Maria, che sei vergine fatta Chiesa ed eletta dal santissimo Padre celeste, che ti ha consacrata insieme col santissimo suo Figlio diletto e con lo Spirito Santo Paraclito; tu in cui fu ed è ogni pienezza di grazia e ogni bene”. Qualche frate aveva intagliato l’antica devozione francescana negli scanni dietro l’altare principale dai quali si poteva ammirare la miracolosa statua in marmo che qualche anno prima aveva parlato ad un giovane novizio in procinto di fare gli esami per essere ammesso nell’ Ordine e, fra quei versi, frate Umile trovò un po’ di pace.
“Perché Madonna mia – questo, quella sera, il suo anelito – a me non consenti di scolpire te? Che bella statua ti farei col tronco che, stasera, è arrivato in convento…”. “Il mio divin Figlio ti basti!”: si era sentito risondere e frate Umile aveva un’altra volta chinato il capo: avrebbe scolpito un nuovo Crocefisso. Ottenuto il permesso dal compiacente Guardiano, si era portato il tronco nell’angolo più nascosto del convento e già quella sera aveva iniziato a pulirlo. Presto i suoi angeli ispiratori sarebbero stati con lui. Erano quegli gli anni in cui la Calabria da oltre un secolo subiva, con l’intero Regno di Napoli, l’egemonia del Vicereame spagnolo. I nuovi signori avevano sostituito i Francesi nell’ occupazione dell’Italia meridionale, nella gestione dello Stato per i primi anni era sembrato che qualcosa sarebbe cambiata, ma ormai era a tutti chiaro: per la plebe ed il popolo più povero, nulla era diverso rispetto a prima.
Il XVI secolo si era chiuso in Calabria con una vera e propria rivolta organizzata da un Frate domenicano che sognava libertà per il popolo ferito pure della prepotente gerarchia ecclesiastica. Un buon gruppo di congiurati, non solo contadini, avevano affiancato il Religioso non solo affascinati dal suo profondo sapere ma, com spesso, qualcuno aveva tradito; frate Tommaso era stato nuovamente incarcerato e trasferito a Napoli, ma il popolo era rimasto inquieto.
In tanti si erano dati alla macchia, aspettando il momento propizio per una sommossa che avrebbe potuto portare, quanto meno, la speranza di libertà. “Ma quando i baroni affamano il popolo, è giusto diventare brigante?” aveva chiesto a frate Umile un giovane novizio. Temendo che lo stesso volesse gettare, come altri, il saio alle ortiche e rifuggiarsi nei boschi come qualcuno, recentemente, aveva fatto “a noi spetta altro” aveva risposto. “L’uomo – gli aveva spiegato – finché vive è sempre nel travaglio. Noi dobbiamo comprenderlo ed aiutarlo, ammonirlo solo se serve, giudicarlo giammai. Il Vangelo ci impone il perdono perché tutti siamo peccatori!”. In una notte di poco successiva a quel colloquio, ecco la possiblità di passare dalle parole ai fatti: mentre frate Umile si trovava nel suo improvvisato laboratorio e già il castagno iniziava a prendere la forma del Cristo sofferente, gli sembrò di sentire qualcuno bussare alla porta del convento.
In quella rigida notte di fredda tramontana in cui la pioggia faceva da padrona, chi poteva trovarsi per strada? Il fraticello aveva lasciato il suo lavoro e, subito, era andato a controllare. Aprire il portone e trovarsi fra le braccia un uomo che sembrava mortente fu la stessa cosa. Non senza fatica, mentre altri frati erano arccorsi, lo portò vicino al focolare e, alla luce del fuoco velocemente ravvivato , aveva notato sul volto dell’uomo tutte le piaghe della fatica subita, il segno di una lunga fame, certamente della febre. Senza neppure aspettare l’ordine del Guardiano, gli aveva messo nelle mani un buon pezzo pane, gli riempì un bicchiere di vino e gli porse anche quello. Fu in quel momento che l’inatteso ospite riuscì un attimo a rasserenarsi: senza che avesse chiesto nulla, qualcuno aveva capito i suoi bisogni. Ristoratosi, fu messo a riposare su un sacco di iuta vicino al focolare e subito si addormentò. A frate Umile fu concesso di vegliarlo: non era la prima volta che, all’occorrenza, si prendava cura dei malati.
” ‘Nnanzi ‘ssa ruga c’è ‘na spuntunera jettari cci lavuogliu ‘na canzuna; ca c’è na donna cuomu ‘na bannera chi la governanu u suli e ra luna. Quannu se curca nun ce vo’ lumera ca ccu li carni sua s’allustra sula. Tantu ch’è bella ‘sa figlia ‘e massaru tantu ch’è bella ch’è n’aquila r’uoru. Quannu si minta ‘ntra chillu tilaru fa ijre la navetta comu ‘nu truanu”. Anna era veramente, non solo fisicamente, una bella figliola ed Antonio che le passava pochi anni se ne era da tempo innamorato. Abitavano vicini, in due casette che poste una di fronte all’altra in un vicolo stretto ed assolatosembravano toccarsi. Da quanto si conoscevano? Nessuno dei due sapeva dirlo. Da bambini si erano più volte trovati a giocare insieme ed una sera di qualche anno prima, quando a lui non era ancora spuntata neppure la barba ma le mani erano già callose, “vuoi sposarmi?” le aveva detto scherzando, ma non tanto. Lei era arrossita ed aveva abbassato la testa. Per uscire dall’imbarazzo della domanda, forse da tempo attesa, si era alzata dal muricciolo su cui era seduta ed era, subito, rincasata.
Quando aveano deciso di sposarsi, lui faceva il contadino ed a 20 anni, dopo l’ultima mietitura, era riuscito a comprarsi un pezzo di terra. Lei era, come tante ragazze di quei tempi, era già una casalinga tutto fare. Tesseva al telaio ed impastava il pane; accudiva il padre ed i piccoli fratelli; aiutando nelle altre faccende di casa la madre: una donna che a poco più di quaranta anni sembrava già vecchia. Se le capitava qualche altra occasione di lavoro, non si tirava indietro ed onestamente faceva tutto ciò che poteva. Si sarebbero sposati per Natale ed ad ottobre,con altre amiche era salita sulla montagna come raccoglitrice di castagne. Oltre al vitto ed all’alloggio le sarebbe toccata una quantità dello stesso frutto dal quale si ricavava farina non buona come quella del grano ma comunque utile negli anni di magra. Una sera che era calata la nebbia ed Anna stava rincasando con un sacco di castagne sul capo, era accaduta la tragedia. il “padrone” aveva provato a violarla e la giovane aveva dovuto difendersi. L’indomani, un servo le aveva dato quanto le toccava ed era stata mandata via. Oltre al torto la beffa. “Ci sono donne che si credono sante e non lo sanno che le sante devono stare nelle nicchie delle chiese. Fin quando sono nel mondo se hanno bisogno devono subire” ripetè in paese il signorotto così tante volte da far capire che qualcosa era accaduta.
Nel borgo dove si conoscevano tutti e fra le raccoglitrici ce n’era una che era tornata troppo in anticipo nel paese fu facile individuare colei che aveva subito il torto che con Antonio non era riuscita a negare. Successe un putiferio. Al giovane che chiedeva spiegazioni di ritorno dalla campagna nella piazza vuota, il signorotto rispose col sarcasmo. “Non ti conviene tacere? – gli domandò – davvero questa pubblicità prima del matrinio ti serve?”. Antonio, per la prima volta, si sentì bollire il sangue nelle vene e con la roncola l’aveva ucciso ed era scappato. Cercando rifugio nel bosco dove altri derelitti si erano rifuggiati. Ed il suo brigantaggio era iniziato. Anna lo aveva raggiunto per qualche tempo nei boschi, vivendo con lui di espedienti ed allo sbaraglio. Poi. per la morte della madre era dovuta rientrare e quando le morì anche il padre fu la prima volta che qualcuno vide pure Antonio nel paese. Avvertito che le guardie sarebbero arrivate a prenderlo, quando il morto era ancora in casa, aveva ripreso quella fuga nel bosco che, dopo qualche giorno era terminata alla porta del convento.
“Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.” Riempita la bisaccia con le offerte della gente, nei gorni successivi al ricovero del mendico, frate Umile tornava più velocemente possibile nel cortile. Nei primi giorni, quando non ne conosceva neppure il nome ed aspettando si riprendesse gli aveva pulito le piaghe e si era preso cura di lui come nessuno negli ultimi anni. Per i primi giorni, lo sguardo di Antonio sembrava assente, ma una sera quando frate Umile gli aveva portato nuovamente pane e vino, “ti devo parlare” gli disse. “Quest’uomo di cui ti stai prendendo cura – aggiunse – è un omicida che non merita nulla. Se gli sgherri sapessero che ho qua ho trovato riparo verrebbero a prendermi e ci sarebbero problemi anche per voi”. Poi le parole erano diventate singhiozzi ed i singhiozzi balsamo per il suo cuore ferito. “Io non sono un giudice, ne una guardia – rispose frate Umile – e tu sei un uomo malato. Resta fra di noi finché starai meglio e non temere. Lascia al tempo di fare il suo corso ed anoi frati di fare del bene”.
I giorni successivi consentirono ai due di meglio conoscersi. Antonio un giorno, dopo chissà quanto tempo, era entrato in chiesa. Un altro giorno aveva ascolato Messa ed un altro ancora aveva chiesto di confessarsi. Trascorreva gran parte della giornata nell’orto dove era tornato al suo mestiere e, man mano che recuperava le proprie forze, faceva quello che sapeva e poteva fare. Le giornate di frate Umile. invece, erano impegnate nella questua. Lunghe ore a girare nei paesi vicini; spesso per poca robba da inserire nella “truscia” come in Calabria ancora si chiama la bisaccia. Solo a sera i due potevano parlarsi ed il loro rapporto migliorava pian piano,consendendo alle loro anime di condividere e confrontare le proprie inquietudini che non erano, in fondo, molto diverse. Frate Umile, quando gli avanzava del tempo, scendeva nel proprio laboratorio ed il suo Cristo di legno iniziava a prendere forma. Quella volta si sentiva più soddisfatto del solito quando era arrivato a realizzare la parte più difficile: il volto del Cristo morente. Come realizzare, con le sue povere mani, quelle labbra che avevano amaliato la gente e gli occhi che avevano guardato teneramente Maria e perdonato Pietro dopo il triplice tradimento ed il canto del gallo nel pretorio? Davvero era uno sforzo che riteneva, mai come quella volta, superiore alle sue forze e nelle ultime settimane si era rifiutato di scendere a lavorare.
Erano i primi di marzo quando fece uno strano sogno. Un uomo vestito ed incappucciato di rosso, bloccato da lunghe corde, con una corona di spine sul capo ed una pesante croce sulle spalle camminava lentamente nelle strade di un paese mai visto. Lo seguivano 11 uomini con tuniche e cappuccio violacei, croci e corone più piccole sul capo e, fra canti e preghiere, un popolo penitente che si batteva il petto. Dopo le ultime case del borgo, la processione continuava in campagna lungo un tracciato lastricato di pietre. D’un tratto ecco apparire una fontana ricavata da una sorgiva e la processione si era per un attimo fermata. Il Penitente vestito di rosso, lasciata per un attimo la croce, si era seduto su un masso ed aveva tolto il cappuccio. Frate Umile si era avvicinato curioso, svegliandosi con un grido. Quel Cristo incamminato verso il Golgota aveva il volto di Antonio!
Recitate le Lodi in chiesa era uscito per la solita questua e, al ritorno, una triste sorpresa. Antonio che ricordò di non aver visto neppure di mattina non c’era più e nessuno dei Frati sapeva quando fosse andato via. Certo, il convento non sarebbe stata la sua casa per sempre ma il figlio di San Francesco un saluto se l’aspettava. Non se l’era meritato con la sua accogliente amicizia? Preso dalla tristezza era salito in cella e là una sorpresa. Qualcuno aveva lasciato sul tavolino un bianco pezzo di pane ed un bicchiere di rosso vino. Proprio lo stesso parco pasto con cui, la sera del suo arrivo, aveva rianimato il mendico.
Volle scendere nello stanzino che aveva scelto come laboratorio e là una nuova sorpresa più inquietante delle altre. Il volto del Crocefisso che aveva appena abbozzato era stato ultimato. Con due labbra volacee dal dolore e due occhi caldissimi, compassionevoli che, quasi di vetro, sembravano parlare. “Continua a scolpirmi senza timore e non sentirti impotente quando le forze non bastano o finiscono. Prima che tu nascessi, io già ti volevo bene ed almeno questa vota avrai capito che non sei tu a scavarmi nel legno. Sono io, ogni giorno, a migliorare te con quello scalpello che sono le tristezze e le prove della vita”.
Francesco Rizza
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