A 50 anni dalla Riforma Agraria: storie di terre, baroni e contadini del Sud nella letteratura italiana.

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L’Italia, particolarmente quella meridionale si appresta a festeggiare i primi 50 anni della legge sulla Riforma agraria (la 841 del 21 ottobre 1950) che rappresentò  una risposta, finalmente concreta, alle richieste dei contadini, in lotta da anni e costretti a scontrarsi con una reazione e repressione spesso brutale.  

A quegli stessi contadini, nel 1944 il ministro comunista Fausto Gullo aveva dedicato il propri decreti (successivamente ritarati quando il ministero dell’ agricoltura passò a ministro democristiano  Antonio Segni appartenente ad una famiglia di latifondisti sardi)  quando  le regioni del Centro e del Nord erano ancora sotto l’occupazione tedesca e la repubblica di Salò ed ai contadini del centro sud veniva data la possibilità di unirsi in cooperative per ottenere la prevista assegnazione delle terre da espropriare ai latifondi.

L’approvazione della Riforma agraria non era arrivata senza dolore. Era, infatti, il 29 ottobre del 1949 quando a Melissa, nel Marchesato crotonese che ancora oggi nonostante le proprie potenzialità  stenta a vivere di agricoltura, la rivolta aveva toccato il culmine quando i celerini manati dal ministro Mario Scelba spararono contro gli occupanti del latifondo di “Fragalà” lasciando a terra tre morti. Fu allora che l’intera Nazione si rese conto che non si poteva lasciare in vita quel latifondismo che, dal tempo dei Normanni, continuava a rappresentare il cancro dell’ agricoltura nazionale.

Oltre che un fatto economico, politico e sociale, le lotte dei contadini contro il latifondismo, fra l’Otto ed il Novecento, era diventato un vero e proprio “fatto letterario” raccogliendo pagine di intensa letteratura quando gli “intellettuali”, particolarmente alcuni, avevano il tempo, la voglia e la capacità di pegnarsi in campagne politiche e sociali e non solo letterarie.

Al tempo in cui lo Stato unitario era da poco nato, per esempio, una delle più intese denunzie dalla situazione agraria calabrese è quella di Vincenzo Padula, sacerdote, scrittore ed antropologo calabrese,  pubblicò   a più riprese sul  suo settimanale“Il Bruzio”. “Un contadino pari al nostro – scrive Padula che oltre che giornalista, fu raffinato poeta fra i più illustri nel Romanticismo calabrese –  che conosce d’ essere povero, imbruttito, lordo, sporco, ignorante e ne ride non merita pietà da noi?  Non è degno che ci occupiamo di educarlo, di migliorarlo, di fargli nascere in petto il sentimento della dignità umana? Esso attualmente – osserva – non è un uomo, ma un’appendice dell’animale. Lavora per mangiare, mangia per far forza a lavorare, poi dorme: ecco tutta la sua vita. Sente i bisogni dell’intelligenza? No. Sente quelli del cuore? Neppure. E pensare che dopo una vita intera vissuta a stecchetto egli parte dal mondo senza aver conosciuto né il mondo, né Dio, né le meraviglie del mondo e di Dio”.  


Se dalla Calabria si passa alla vicina Sicilia la condizione dell’agricoltura è quasi immutata  “Il viandante che andava  lungo il Biviere di Lentini – questo il noto incipit della novella da cui  sarà successivamente tratto  il   romanzo “Mastro  Don Gesualdo”di Giovanni Verga – steso la’ come un pezzo di mare morto, e le stoppe riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francoforte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passanato e di Passanitello, se domandava per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo nell’ora in cui i cui campanelli della lettiga suonavano tristemente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria “qui di chi è?” sentiva rispondere “di Mazzarò” .

  Emblematico, il rapporto di Mazzarò diventato priorietario terriero   con gli altri contadini:    “I Mezzadri che venivano a lagnarsi delle malannate, i debitori che mandavano in processione le proprie mogli a strapparsi i capelli e battersi il petto – continua la novella –  per scongiurarlo di non metterli in mezzo alla strada, col prendersi il mulo e l’asinello, che non avevano da mangiare”. “Lo vedete quel che mangio io?” ripeteva lui. “Pane e cipolla! E si che ho i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba”. E se gli domandavano un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: “che, vi pare che l’abbia rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle?”. E se gli domandavano un soldo rispondeva che non l’aveva”.

L’avvento delle Giubbe Rosse di Giuseppe Garibaldi, in tale situazione di povertà, fu salutata dai braccianti siciliani come l’avvento dell’uguaglianza, ma nemmeno la conquista dell’isola dall’ Eroe dei due mondi modificò la situazione dei braccianti siciliani. Lo ricorda ancora Giovanni Verga, nella novella   “Libertà!” in cui lo scrittore catanese ricostruisce la rivolta di Bronte per la divisione delle terre. “Al grido di “Viva la Libertà” – narra Giovanni Verga – la folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei gentiluomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciola. “A te per prima, barone! Che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri!”.

“Il giorno dopo – continua la novella – si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti, ma nessuno si mosse”. In pochi giorni, tutto tornò come prima. Per i rivoltosi di Bronte ci fu un processo in cui furono nominati giudici i galantuomini padroni delle terre.  I contadini colpevoli della rivolta, invece, furono condotti in carcere. Per tre anni “nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre colle inferiate”. Ed al  momento dell’arresto, sulle labbra di uno dei rivoltosi, il Carbonaio, tutto il disincanto per quanto era accaduto: “Dove mi conducete? In Galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà…”

Riattraversato lo Stretto, ecco la descrizione di analoghe tematiche di Corrado Alvaro.  “Non è bella – scrive Corrado Alvaro in “Gente in Aspromonte”- la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno  quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali. Vanno in giro coi lunghi cappucci attaccati ad una mantelletta triangolare che protegge le spalle, come si vede talvolta raffigurato qualche dio greco pellegrino e invernale. I torrenti hanno una voce assordante”.

Del tutto diversa, invece, la vita dei signori nelle lloro residenze.  Quest’ultime, da come le descrive lo stesso scrittore,  sono quasi delle regie:  “Con portici, stalle, cucine, giardini, servi. Il popolo si agitava e si affannava intorno a questa casa che era attigua alla chiesa, dove era tutta la ricchezza, tutto il bene e il male del paese (…) essere servi in quella casa era già un privilegio (…) Dovunque ci si voltava era terra di questa casa, dalle foreste sui monti agli orti acquatici verso il mare. Dovunque, comunque. Era loro la terra, loro le ulive che vi cadevano sopra, erano loro le foreste sui monti intorno, loro i campi tosati di luglio (…) Quanti schiaffi volarono sulle facce dei contadini, quanti calci dietro a loro! Le anticamere rigurgitavano di gente misera che aspettava di essere ricevuta, rovinata per un maiale precipitato in qualche strapiombo. Qui si discuteva della roba”. 

Quasi in contemporanea alla pubblicazione di “Gente in Aspromonte”, nella Lucania raccontata  da Carlo Levi, l’impressione dei contadini che vi vivevano era di essere ancora lontani dalla redenzione:  “Cristo non è mai arrivato qui, né vi è mai arrivato il legame fra le cause e gli effetti. Cristo non è arrivato, come non erano arrivati i Romani, che presidiavano le strade e non entravano fra i monti e nelle foreste, né i Greci che fiorivano sul mare di Metaponto e Sibari. Nessuno degli arditi uomini di occidente – denuncia Carlo Levi – ha portato quaggiù il suo senso del tempo che si muove, né la sua teocrazia statale, né la sua perenne attività che cresce su sé stessa”.

Nella Basilicata che accoglie Carlo Levi, ai suoi tempi, era aoncora viva   quella supertizione per la quale  gli uomini e le bestie condividevano la propria quotidianità oltre che con le proprie fatiche, con quei “fuschi, fusculicchi, che vivono la loro libera vita diabolica o angelica”, col “malocchio”. Era questa la cosiddetta “magia lucana”  descritta dall’antropologo Ernesto De Martino che, descrivendo la superstizione lucana, le    riconosceva un’origine colta collegata alla “rielaborazione della magia naturale nella Rinascienza” collegandola, fra gli altri, a Giordano Bruno e Tommaso Campanella.  “La magia del Sud – scrive, infatti,  Ernesto De Martino – non è soltanto costruita dai relitti di arcaici rituali che cadono in desuetudine ogni giorno che passa, ma anche dalla particolare accentuazione magica del cattolicesimo meridionale: è qui già non è più possibile parlare di logori relitti e di forme di vita magico religiosa che non abbiano importanza attuale per tutti gli strati della società meridionale”.

Scritto di getto fra il 1943 ed il 1945, in uno dei bienni cioè più terribili della storia italiana, il “Cristo si è fermato ad Eboli” non è semplicemente il diario di un viaggio o di una travagliata esperienza di vita. Nell’ Abbruzzo siloniano  “c’erano i galantuomini – osserva lo stesso tenente – e c’erano i briganti. I figli dei galantuomini e i figli dei briganti. Il fascismo non aveva cambiato le cose. Anzi, prima, con i partiti, la gente per bene poteva stare tutta da una parte, sotto una bandiera particolare, e distinguersi dagli altri e lottare sotto una veste politica. Ora – aggiunge il graduato – non ci resta che le lettere anonime, e le pressioni e le corruzioni in prefettura. Perché nel fascismo ci stanno tutti. Io, vede, sono di una famiglia di liberali. I miei bisnonni sono stati in prigione sotto i Borboni, ma il segretario del Fascio sa chi è? E’ il figlio di un brigante. Proprio il figlio di un brigante. E tutti gli altri che gli tengono bordone, e che adesso comandano il paese, sono tutti della stessa risma”.      

Nulla da stupirsi,   se come osserva il medico torinese, dagli stessi braccianti lucani era difficile sentire proprio lo Stato nazionale.   “Per i contadini lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta’ sempre dall’altra parte”. “Non importa – aggiunge – quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio de loro, e non c’è davvero nessuna ragione, perché li vogliano capire, la sola possibile difesa contro lo Stato e contro la propaganda, è la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione senza speranza di paradiso, che curva la loro schiena sotto i mali della natura”.

La gerarchia sociale dell’ Abbruzzo di Silone è quella descritta da uno dei personaggi del suo romanzo. “In capo a tutto – spiega Michele Zappa, uno dei personaggi del romanzo  – c’è Dio, padrone del cielo e della terra. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi nulla.  Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. E si può dire che è finito”. “Ma le autorità dove le metti” chiede ancora più irritato il forestiero. “Le autorità“ interviene a spiegare Ponzio Pilato “si dividono tra il terzo ed il quarto posto. Secondo la paga. Il quarto posto, quello dei cani, è immenso. Questo ognuno lo sa”.

Una rivolta calabrese contro questa stuazione è quella narrata ne “Il Vento nell” Oliveto” da Fortunato Seminara. “Passano nelle strade dietro una bandiera rossa, cantando e gridando dicono “Evviva!” e “Abbasso!” e altre cose che si perdono nel frastuono. Sono tutti eccitati e alzano i pugni  in un gesto di minaccia, giovani, vecchi e ragazzi. Alcune donne camminavano in testa a tutti e le loro voci acute coprono quelle degli uomini”. Il contendere? La richiesta di un aumento della paga giornaliera. “Ma chi deve dare la terra? – domanda –  certamente  quelli che ne possiedono molta e non riescono a coltivarla tutta (…). Ma se si vuole spogliare tutti i proprietari allora è un altro conto. Allora dico che quello che conta non è tanto decidere a chi debba appartenere la terra, quanto piuttosto il modo che si possa vivere tutti bene”.  

La protesta dura più giorni poi, finalmente, la svolta: “Io sostengo che bisogna cedere. Possiamo anche vincere – afferma il signore  di culo lo scrittore è diventato voce   – ma il danno sarà maggiore del guadagno, la sconfitta lascerà odio nel cuore dei braccianti, e lavoreranno come schiavi, svogliati, e faranno la vendetta (…). Hanno già avuto una lezione: una settimana di lavoro perduto conta nelle famiglie povere, scava un vuoto,  ma se chiederanno altri aumenti allora dobbiamo doppiamente resistere. Prevale il mio pensiero. Mandiamo una persona ad annunciare che concederemo l’aumento a patto che domattina vengano a lavorare. A mezzogiorno i braccianti si riuniscono in piazza e celebrano  con un grido di soddisfazione la loro vittoria, poi tornano nelle bettole a bere”.    

Oltre che numerosi scrittori, guardarono  al Marchesato crotonese dove, come dicevamo le lotte agrarie ebbero il proprio culmine,   anche le telecamere  di Pier Paolo Pasolini che, almeno idealmente, volle dedicare     ai contadini del Sud  uno dei suoi film più noti, “Il Vangelo Secondo Matteo”. Lo stesso film, giratonel 1964, fu ambientato   in alcune località  rupestri dell’Italia   meridionale dal Lazio alla Basilicata con i noti Sassi di Matera, dalla Puglia alla Calabria fra Le Castella di Isola Capo Rizzuto ed i calanchi di Cutro. Lo stesso regista friulano, inoltre, volle gli stessi braccianti meridionali   nel cast dello stesso film, costituito in gran parte da attori non professionisti. A distanza di qualche anno dall’uscita del film, lo scrittore e regista friulano    fu denunciato dalla Giunta comunale democristiana di Cutro per la descrizione che aveva dato della stessa cittadina in un proprio reportage.

 “Ecco, a un distendersi delle dune gialle – aveva scritto il regista friulano  – in una specie di altopiano, Cutro. Lo vedo correndo in macchina ma è un luogo che di più  mi impressiona di tutto il lungo viaggio”. “E’, veramente, il paese dei banditi – aggiunge Pasolini – come si vede in certi westerns. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi. Si sente, non so da cosa, che siamo fuori dalla legge, o, se non dalla legge dalla cultura del nostro mondo, a un altro livello”.

  “Banditi”,   spiegherà lo Scrittore friulano, era termine utilizzato nell’eccezione filologica di “esiliati” e messi fuori dalla società come erano e continuarono ad essere lungamente  i contadini calabresi.  Ciò nonostante,  per essere stato pubblicato nel corso di una campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio comunale cutrese, il reportage di Pasolini subì un esposto dall’uscente Amministrazione comunale democristiana che, dopo essere descritta da varie testate nazionali,    il 26 aprile del 1962, sarà ritirato dalla nuova maggioranza comunale.  Intanto, nelle pagine di “Paese Sera”,  lo stesso Pasolini aveva replicato alle accuse spiegando il proprio punto di vista esplicitando il proprio, intenso, amore per la Calabria ed il Crotonese.  

“La storia della Calabria – scriveva Pier Paolo Pasolini  dimostrando di conoscerla perfettamente – implica necessariamente il banditismo, se da due millenni essa è una terra dominata, sotto governata, depressa. Paternalismo  e tirannia, dai Bizantini agli Spagnoli, dai Borboni ai Fascisti, che cos’ altro potevano produrre se non una popolazione nei cui caratteri sociali si mescolano una dolorosa arretratezza e un fermo spirito di rivolta? E appunto  per questo non si può non amarla, non essere tutti dalla sua parte, non avversare con tutta la forza del cuore e della ragione chi vuol perpetuare questo stato di cose, ignorandola, mettendo a tacere, mistificandola”. Così allora e così, purtroppo, ancora oggi.

Francesco Rizza

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